di Kiran Chaudhuri (Antigone Emilia-Romagna) – 30 agosto 2022

Volontariato, ponte tra carcere e noi

 A oggi sono quasi 20.000 le volontarie e i volontari che operano nel sistema carcerario italiano. Un ruolo centrale il loro, riconosciuto dalla legge, ma non sempre valorizzato in tutti gli istituti del Paese. Su VDossier l'intervento di Associazione Antigone, dal 1998 attiva per i diritti e le garanzie nel sistema penale

Dal 1998 Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, entra negli istituti penitenziari italiani. Dal 1998, grazie ai suoi volontari, raccoglie dati, osserva, critica e dialoga con istituzioni, detenuti e società civile per mantenere viva ed effettiva la funzione riabilitativa della pena.  Come Antigone, sono numerose decine le associazioni, i privati e le istituzioni che ogni anno attraversano le porte blindate degli istituti penitenziari, arrivando ormai a ricoprire un ruolo di fondamentale importanza tale da rendere il volontariato uno degli attori che popolano il mondo carcerario. Basti pensare che, fino a prima della pandemia, il numero dei volontari è andato aumentando, assestandosi, nel 2019, a 19.500 persone. Si tratta di una cifra decisamente significativa se si considera che gli agenti penitenziari, nel 2021, hanno raggiunto le 32.545 unità, con un rapporto di un volontario per ogni due agenti.

È la stessa legge sull’ordinamento penitenziario a definire la funzione ultima dei volontari: le autorizzazioni sono infatti concesse dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) in base all’art. 17, per chi promuove il contatto tra comunità detenuta e società libera, e all’art. 78, rivolto invece a coloro che intervengono direttamente sul percorso trattamentale dei ristretti.

Contatti con l’esterno e rieducazione: queste sono le macro-aree della vita detentiva che sono sempre più affidate al volontariato, ponte tra chi è dentro e chi è fuori e guida nella riconquista di un ruolo nella società.

La mera privazione della libertà personale risulta infatti del tutto priva di efficacia e senso laddove non sia accompagnata da una possibilità di scoperta e ridefinizione del sé attraverso attività che impegnino il corpo e la mente e che ridiano dignità ai detenuti come cittadini attivi e responsabili della propria e dell’altrui esistenza. Ecco, dunque, che risulta cruciale la funzione delle numerosissime realtà di volontariato che offrono attività educative e ricreative all’interno delle carceri italiane, sopperendo alle carenze di personale e di offerta trattamentale degli istituti.

Allo stesso tempo, il percorso di reinserimento deve vivere di confronto e contatto con il mondo esterno, che si auspica essere il punto di approdo finale. Come riporta il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nella sua ultima Relazione al Parlamento, “La comunicazione in questi luoghi [ndr, le carceri] è una risorsa sociale estremamente scarsa (…) Anche per questo ogni occasione di confronto con l’esterno costituisce un momento estremamente importante, in particolare per la persona detenuta”.

L’esigenza di un carcere cosiddetto aperto, in cui i rapporti e le relazioni con il territorio e la società civile si facciano sempre più fitti, e che dia ai detenuti la possibilità di gradualmente riappropriarsi degli spazi esterni, trova la sua fondamentale ragion d’essere nella funzione rieducativa della pena, prevista a livello costituzionale e garanzia della tutela della dignità del detenuto. È il cosiddetto diritto alla speranza elaborato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui la pena perpetua che non possa essere oggetto di riesame, integra un trattamento disumano e degradante. Alla stessa conclusione è giunta la stessa Corte, per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, ossia la condizione di chi, condannato per determinati reati particolarmente gravi, come ad esempio l’associazione a delinquere a scopo mafioso, si vede negato automaticamente, a prescindere dal percorso risocializzante intrapreso, l’accesso ai benefici penitenziari, tra cui la liberazione condizionale. La questione è oggi al vaglio dalle Corte Costituzionale, che pur rilevandone l’incostituzionalità, ne ha sospeso la trattazione in attesa di un intervento legislativo organico. L’udienza, fissata per il 10 maggio 2022, è stata tuttavia rinviata al successivo 8 novembre per dare ulteriore tempo all’iter legislativo avviato dal Parlamento.

Se fino al 2019 i numeri dei volontari sono andati crescendo, la pandemia da Covid-19 ha determinato una prolungata battuta di arresto, interrompendo tutti gli accessi dall’esterno. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, nel 2020 si è vista la partecipazione di soli 9800 volontari, in graduale ripresa con circa 11.800 volontari nel 2021, ma comunque lontani dai numeri pre-pandemici. Il rischio di un sistema povero di risorse, quale quello detentivo, è che si trovi a scegliere tra tutela del diritto alla salute e tutela del diritto allo studio, al lavoro e all’accesso ad una pena che sia veramente risocializzante, un bilanciamento che negli ultimi anni si è sempre risolto a scapito del percorso trattamentale dei ristretti, facendoli sentire isolati e dimenticati.

Allo stesso tempo, il volontariato ed i volontari scontano spesso le linee direttive e gestionali di chi concede le autorizzazioni, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e i direttori d’istituto, determinando un’amplissima disparità di offerta in termini trattamentali e di attività tra i diversi penitenziari. L’auspicio, dunque, è non solo quella di una più equa distribuzione delle risorse, ma anche dell’elaborazione di standard comuni a tutto il panorama nazionale, in modo tale che la prospettiva di rieducazione del detenuto non finisca per essere del tutto determinato sulla base di fattori contingenziali esterni, quale quello geografico di domicilio o del luogo dell’arresto.

In attesa di una presa di coscienza collettiva sulla funzione rieducativa della pena e di una visione politica che vi dia attuazione in maniera sistemica, il volontariato rimane lo strumento con cui la società civile si occupa anche dei suoi membri ristretti, offrendosi come punto di contatto attraverso le mura e le porte blindate, nel tentativo di accorciare le distanze, abbassare i muri e far sì che la reclusione non finisca per essere la totale privazione di ogni diritto e speranza.

Kiran Chaudhuri è avvocatessa bolognese, specializzata nello studio del Diritto penale comparato e Diritti umani. È membro di Antigone Emilia-Romagna.

Un progetto di scuola in carcere, a Rebibbia, curato delle volontarie e dei volontari dell'associazione Happy Bridge

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