di Nunzio Bruno – 14 marzo 2022

La Legge dei trent'anni

 Un bilancio della legge 266/91 che per prima ha normato il mondo del volontariato, alla luce della Riforma del Terzo settore

Nell’aula parlamentare, tutti in piedi ad applaudire. È l’11 agosto 1991 ed è stata appena approvata all’unanimità la 266, la prima legge sul volontariato in Italia. Sono passati poco più di trent’anni e riveste ancora un ruolo fondamentale. Quella legge, per la prima volta nella storia repubblicana, ha sancito il valore sociale e pubblico del volontariato come “espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo” con la quale lo Stato ne “promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia” (art. 1).

L’unanimità della sua approvazione fu il frutto di nove anni di dibattito e sette di iter parlamentare sotto la guida dell’allora
ministra per gli affari sociali Rosa Russo Iervolino. Renato Frisanco, sociologo, ricercatore nel campo del Terzo settore e
del volontariato e vicepresidente dell’associazione Luciano Tavazza, ritiene che la 266 sia arrivata “dopo che un volontariato
moderno, un fenomeno ampio, significativo, di gruppi, plurale nelle sue radici culturali e allo stesso tempo compatto e pure capace di interlocuzione con le istituzioni e la cittadi nanza, si era palesato come un fenomeno importante nel nostro Paese a partire dalla fine degli anni 70. Il fatto che la legge 266 sia stata emanata non prima del 1991 è indicativo anche della cautela con cui si guardava alla sua regolamentazione, visto il valore proprio del volontariato che esprime la libera manifestazione dell’autonomia delle persone”.

Prudenza che caratterizzò sia il percorso di elaborazione del testo, sia i tempi di approvazione. A muovere le acque dal punto di vista giuridico fu, nel 1988, la Corte Costituzionale che nella sentenza 396 fissò un principio: l’assistenza sociale non può essere un monopolio pubblico, occorre lasciare spazio alla libera azione privata, così come scritto nell’art. 38 della Costituzione. Principio che in Italia, già a partire dalla metà degli anni 60, aveva trovato attuazione anche grazie alle prime esperienze associative che si richiamavano ai valori del volontariato (Gruppo Abele, Comunità di Capodarco, Comunità Progetto Sud…). Esperienze “private” di cittadinanza attiva che man mano uscirono dalla dimensione della testimonianza e ampliarono il loro attivismo nella rivendicazione dei diritti e nell’azione politica di trasformazione dei meccanismi sociali ed economico-amministrativi, tanto da spingere il parlamento a dover affrontare il riconoscimento e la regolamentazione del
fenomeno.

“Sebbene, afferma ancora Frisanco, i soggetti che sono arrivati ultimi nel concepire l’importanza del volontariato – e quindi della legge quadro – sono stati i partiti politici che facevano fatica a comprendere questo fenomeno. Forse perché l’azione del volontariato è un altro modo di fare politica, rappresenta un’istanza partecipativa, è una manifestazione di democrazia dal basso. Pure questo ha condizionato i tempi di elaborazione e approvazione della legge avvenuta nel 1991”. Per giungere a un testo condiviso, la ministra Iervolino e gli altri responsabili governativi adottarono un metodo partecipativo che coinvolse organizzazioni di volontariato, soggetti sociali, enti territoriali.

Un tragitto che, fra l’altro, favorì una più precisa focalizzazione delle necessità e dei soggetti che componevano non solo il volontariato, ma l’intero Terzo settore in Italia, chiamato così perché non inquadrabile nel pubblico (primo settore) o nel mercato (secondo settore), visto che comprende soggetti privati che perseguono un interesse generale. Sicché, dopo la 266 del 1991, si inaugurò la cosiddetta legislazione “a canne d’organo”, con l’emanazione di leggi che regolavano specifici ambiti del privato sociale (ad esempio la legge 381 del 1991 che istituiva le cooperative sociali; la 398 sempre del ‘91 per le associazioni sportive dilettantistiche; quella per il volontariato di protezione civile, la 225 del 1992; quella per le associazioni di promozione sociale, la 383 del 2000; infine il decreto legislativo 155 del 2006 che norma l’impresa sociale, etc…).

Dunque, la 266 fece da apripista al Terzo settore italiano e questo è significativo rispetto anche ai valori basilari di cui è portatore il volontariato. La legge – dice ancora Frisanco – “è stata importante per un motivo molto semplice: stabiliva, una volta per tutte, che le persone che operavano nel mondo del volontariato potevano legittimamente svolgere un’attività non retribuita. Fino ad allora non era così pacifico. In tal modo, si fugò ogni dubbio tra gratuità e lavoro e si confermò quale requisito il valore fondamentale della gratuità”.

La 266, inoltre, ha regolamentato i rapporti fra le organizzazioni di volontariato e gli enti pubblici, favorendo così l’apporto originale del volontariato con i suoi servizi e gli interventi che dovevano essere messi in grado di anticipare e integrare l’offerta di quelli esistenti. È anche sancita la partecipazione consultiva del volontariato alla programmazione pubblica delle politiche sociali e sanitarie. La 266, in questo modo, ha cambiato l’ottica con cui si guarda il volontariato: non più come soggetto che implementa o incrementa i servizi esistenti, ma soggetto dotato di una propria autonomia, capacità di intervento e innovazione.

Questo, in sintesi, il portato della legge 266 che, lungo la sua trentennale carriera, ha mostrato anche limiti e aspetti disattesi che ne richiedevano un aggiornamento. Soprattutto, dopo la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001 e, in particolare, l’inserimento dell’ultimo comma dell’art. 118 (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”). Vera e propria rivoluzione copernicana per tutto il Terzo settore, come la definisce Frisanco, “perché ha sancito la comune responsabilità delle formazioni della società civile e delle istituzioni nello spazio pubblico del welfare in nome dell’interesse generale. La storia recente ci dice che senza la legge 266 non ci sarebbe stata l’evoluzione successiva a
vantaggio di tutto il Terzo settore”.

Un’evoluzione che, in tempi recenti, è sfociata nella Riforma dell’intero comparto. La quale, avviata dal governo Renzi nel 2016, si è posta l’ambizioso obiettivo di un’armonizzazione complessiva della materia giuridica riguardante quest’ambito. Infatti, il titolo della legge dalla quale scaturisce è Legge delega 106/2016 per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale. Un progetto non da poco. Tanto che uno degli esiti ragguardevoli della riforma è la stesura, approvazione e pubblicazione, nel 2017, del Codice del Terzo settore (Cts) che, in modo organico, disciplina il non profit e l’impresa sociale e sostituisce le normative sino ad allora vigenti. Si tratta della novità più rilevante, dal punto di vista giuridico, rispetto a un quadro legislativo segmentato.

Ad oggi, la riforma non è ancora completa e attende l’emanazione degli ultimi decreti attuativi. Fra gli adempimenti già compiuti, il 23 novembre 2021 è stato avviato il Registro Unico Nazionale del Terzo settore (Runts) che è uno dei cardini della Riforma, giacché in esso devono confluire tutti gli enti di Terzo settore (Ets). Sulla continuità fra legge 266/91 e Riforma del 2017, Luigi Bobba, presidente di Terzjus Osservatorio di diritto del Terzo settore, e già presidente Acli, portavoce del Forum nazionale del Terzo settore, parlamentare e sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni con competenza sulla Riforma, ritiene che il cuore dell’intervento riformatore sia stato riordinare, innovare e potenziare lo sviluppo delle organizzazioni associative di volontariato, cooperative, mutualistiche, che adesso chiamiamo “Enti di Terzo Settore”.

n qualche modo è lo stesso incipit della legge 266. In questa prospettiva, a Bobba “sembra che lo spirito, la finalità, siano in
qualche modo in assoluta continuità, mentre avere dato forma legislativa al principio di sussidiarietà, richiamato all’articolo 118 della carta Costituzionale, è l’elemento di maggiore innovazione della legge di riforma del 2017”. Dunque, per l’ex sottosegretario, che ne ha seguito l’iter, vi è una linea di continuità, ma anche di sviluppo rispetto alla legge 266. Eppure una delle critiche più ricorrenti rivolte alla riforma è che indebolisce proprio il ruolo del volontariato. La norma, infatti, pone maggiore attenzione al volontariato del singolo, a discapito della forma organizzata; in tal modo ne svilirebbe l’incidenza socio-politica e la reale influenza all’interno degli Ets.

“Una critica infondata – ribatte Bobba –. Primo, le organizzazioni di volontariato non spariscono. Perfino la prima sezione del Runts – non credo sia un caso – è dedicata alle organizzazioni di volontariato. Come non è un caso che diversi articoli della legge 266 siano stati incorporati nel Cts. Quindi, non vi è nessuna cancellazione, né sparizione del portato importante della legge 266. Secondo, credo che sia un passo avanti aver individuato uno status specifico del volontario. Tra l’altro, le caratteristiche del volontario che opera in modo spontaneo, libero, personale, gratuito, sono esattamente gli elementi ispiratori della legge 266. Tale identificazione del volontario mi sembra sia importante sia sul piano di principio, sia su quello pratico: evitare fenomeni di pseudo volontariato o pseudo lavoro, cioè quell’area grigia che tutti vogliamo contrastare. Terzo, proprio per le organizzazioni di volontariato alcune delle norme sono di maggior favore: una detrazione fiscale più vantaggiosa (il 35% rispetto al 30% degli altri Ets) per le erogazioni liberali verso il volontariato, una serie di accessi a determinati fondi specifici…

Quindi, anche da questo punto di vista, la legge ha tenuto conto della natura originale e specifica di queste realtà che vivono di due cose: dell’impegno volontario (tempo e competenze/abilità) e della capacità di raccogliere donazioni, erogazioni liberali – in termini monetari o in termini di beni – per supportare la propria azione”. Un altro dato, in favore di un rafforzamento del volontariato da parte della riforma, è l’intervento sui Centri di servizio per il volontariato (Csv). Enti che la legge 266/91 mise in campo quale strumento a fianco delle organizzazioni dei volontari, a cui forniscono servizi gratuiti per qualificarsi e promuoversi. Fatto davvero innovativo anche a livello europeo. Nell’attuale Cts, i Csv vengono configurati come dei veri e propri agenti di sviluppo dell’azione volontaria, non solo in favore delle organizzazioni di volontariato, ma anche per gli altri Ets. Pure in questo caso si tratta di un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto indicato dalla 266.

Tuttavia, per Giuditta Petrillo – lunga militanza nel volontariato Auser e attuale presidente del CeSVoP, Centro di servizio per il volontariato della Sicilia occidentale – nella riforma vi sono luci ed ombre. “Ritengo importante che sia stata riconosciuta la rilevanza del volontariato e del volontario che può essere anche una persona al di fuori di un’organizzazione, ma osservo che nel Cts il volontario singolo non gode delle stesse tutele del volontario di un qualsiasi ente del Terzo settore (per quanto riguarda il profilo assicurativo, ad esempio). In positivo, è stato utile riorganizzare le varie forme associative in un unico settore, ma esistono ancora forme di volontariato che in parte esulano dalla normativa del Cts e altre forme che sono sottoposte a una disciplina propria.

Per la riorganizzazione complessiva è stato necessario creare un Registro unico nazionale, ma vedo difficoltoso il processo e ho la preoccupazione che ci sarà un volontariato che ne resterà fuori, pur continuando a operare e a svolgere le sue attività”. Luigi Bobba avverte tuttavia di non affrettare il giudizio e di attendere “il momento della verifica sul conseguimento degli obiettivi e dei risultati che la riforma si era proposta. Innanzitutto si dovrà vedere se essa avrà favorito lo sviluppo dell’impegno e dell’azione volontaria nelle sue diverse forme”. In sostanza, occorre attendere i giusti tempi per rilevare quanto sia stata capace di promuovere l’impegno dei cittadini italiani nel campo dell’azione volontaria, mutualistica o associativa. Perché questo sarà l’indicatore decisivo del suo successo o del suo insuccesso. C’è, però, chi guarda all’adesso, cioè alla visione di volontariato e ai conseguenti processi innescati sin d’ora dalla riforma 2017.

A farlo è Renato Frisanco che, in modo netto, mette in guardia da alcuni cambiamenti di prospettiva. “Il volontariato, in questo disegno, viene valorizzato più per la disponibilità di singole persone a operare nelle realtà di Terzo settore che per il contributo e la funzione delle organizzazioni solidaristiche. A meno che non abbiano le sembianze di una organizzazione semi-professionalizzata di servizi”. In sostanza, per Frisanco, nella recente riforma vi è una visione che pone al centro la gestione dei servizi, sul modello dell’impresa sociale, e trascura ruolo, peculiarità e funzioni prioritarie del volontariato, considerato alla stregua degli altri Ets. Pertanto, la riforma “non riconoscendo la specifica funzione ed entità del volontariato, ne depotenzia di fatto la dimensione politica”.

Ecco allora che perderebbero spessore l’educazione alla solidarietà e la promozione della cittadinanza attiva, l’advocacy o la tutela dei diritti, la capacità di analisi dei bisogni, di anticipazione delle risposte, di innovazione dei servizi (tipico contributo del volontariato negli anni fino al 2000), nonché di stimolo e controllo sull’operato pubblico. L’economista Luigino Bruni sostiene che il volontariato in Italia tante volte è considerato come un “limoncello”. Cioè, il liquore che si serve a fine pasto, per ultimo, e se non c’è, non fa niente, si è sazi lo stesso. Un volontariato, quindi, destinato ai margini delle esistenze e del sistema socio-politico: quando si ha tempo, se vi è la possibilità, solo in certi casi. Invece, il volontariato moderno corrisponde piuttosto al come si sta a tavola, cioè al fare attenzione a come girano le portate, ai rapporti fra i commensali, a come viene distribuito il cibo migliore e a curare che tutti si servano e che ciascuno abbia ciò di cui ha bisogno. Un volontariato “avanzato” che per Luigi Bobba viene comunque avvantaggiato, potenziato dalla recente riforma.

“Il risultato iniziale è che siamo i primi in Europa ad avere dato un corpus unitario al variegato mondo del Terzosettore. Variegato perché, come si evidenzia anche dalle sezioni del Runts, le diverse famiglie, modelli organizzativi, non sono stati cancellati, ma sono stati ordinati dentro una casa comune che non è una caserma. Innanzitutto, perché non si è obbligati a entrare: si può continuare a fare la propria attività volontaria associativa anche senza entrare nel Runts e senza avere il riconoscimento di Ets. Il fatto da apprezzare è il tentativo di ispirarsi al principio di unità nella diversità. In questa diversità c’è anche la ricchezza e molte delle potenzialità di questo mondo, quindi il fatto che adesso abbiamo degli Ets riconosciuti e individuati dal diritto, rende anche tutto più facile nei provvedimenti successivi che il legislatore dovrà compiere”.

Inoltre, sempre secondo Bobba, l’avvio del Runts spingerà gli Ets verso una maggiore trasparenza che alimenterà ancora di più la fiducia che è il capitale fondamentale nei rapporti fra istituzioni, volontari e cittadinanza. “Se non c’è fiducia, non si mette in moto l’azione volontaria nelle sue diverse forme attraverso cui si organizza”. Infine, una dimensione della riforma ancora inesplorata e non del tutto espressa nel suo potenziale è quella promozionale. Infatti, è “difficile dire quanto e come le opportunità di promozione che sono contenute nella riforma abbiano prodotto dei risultati. Dapprima perché diverse di quelle norme hanno trovato applicazione recente e alcune non sono neppure utilizzate. Ad esempio: il social bonus o alcuni regimi fiscali. Poi, perché la dimensione promozionale della riforma è ancora sottovalutata”.

Su questo versante della promozione, della qualificazione e del sostegno alle organizzazioni di volontariato e ai volontari degli Ets, un ruolo strategico viene affidato ai Csv sia nella vecchia prospettiva della 266/91, sia nell’ampliamento indicato dalla riforma 2017. Mentre prima i Csv dovevano proporre i loro servizi gratuiti alle organizzazioni di volontariato in regola con la legge 266 e iscritte e non iscritte ai registri regionali, adesso la platea viene ampliata (tutti i volontari degli Ets, con particolare riguardo alle organizzazioni di volontariato), ma tagliando di fatto tutti gli enti non iscritti al Runts.

A dare un parere è Giuditta Petrillo che se, da un lato, coglie positivamente la possibilità per i Csv di una reale promozione del volontariato in tutti gli Ets, dall’altro, esprime preoccupazione per quelle realtà associative che vogliono restare fuori dall’obbligo normativo: “Con quali enti potranno interloquire, se anche i Csv non potranno erogare loro dei servizi? Infine, al di là del fatto che rimangono da definire ancora diverse parti della riforma, ritengo che il volontariato con la sua forte capacità di rigenerarsi e innovarsi sul campo, saprà farsi carico di nuove esigenze che nel tempo si presenteranno ichiedendo un’ulteriore attenzione da parte del legislatore”.

Sulla migliorabilità della normativa vigente, si sta già muovendo l’associazione Luciano Tavazza che è in procinto di pubblicare un decalogo di interventi sulla riforma del 2017, fra i quali spiccano diversi punti. Primo, offrire, soprattutto alle piccole e medie organizzazioni di volontariato, un supporto concreto di tipo economico e logistico garantendo risorse sufficienti per non dipendere da soggetti altri.

Secondo stabilire che i volontari presenti nelle diverse realtà di Terzo settore debbano poter partecipare alle decisioni degli organi direttivi, circa le scelte strategiche e gli obiettivi. Terzo, salvaguardare la prevalenza dei volontari rispetto al numero dei lavoratori impiegati. E ancora, ripristinare o creare strutture di raccordo e rappresentanza specifica e autonoma del volontariato, ampliare l’autonomia di programmazione dei Csv sul loro territorio e, nello stesso, tempo, rimettere nelle loro competenze il sostegno alle organizzazioni di volontariato non iscritte al Runts.

Immagine © Archivio Centro di Ricerca Maria Eletta Martini

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