di Marco Benedettelli – 14 marzo 2022

Quelle rime che annullano le sbarre

 L’associazione anconetana Nie Wiem propone la poesia nelle carceri come strumento terapeutico, capace di unire, nel potere dei versi, il dentro con il fuori

Alla domanda “c’è ancora un bambino dentro di voi?” si sprigionano le risposte più sincere. “Ho avuto un’infanzia durissima, ma sono tornato bambino quando è nato mio figlio”, racconta un detenuto dall’accento romano. Al suo fianco un ragazzo albanese, che avrà sì e no trent’anni, sorride: “Torno spesso, nella memoria, a quando ero piccolo. Ci penso e ci ripenso, allora non avevo il peso che sento addosso, ero felice, pieno di giocattoli attorno a me”.

La luce filtra dalle sottili finestre orizzontali in alto sul soffitto, una guardia penitenziaria da un angolo vigila l’incontro mentre
quindici detenuti siedono a semicerchio attorno a quattro volontari, si leggono testi, lettere, ci sono domande e risposte. I volontari invitano i detenuti a parlare della propria infanzia, lo spunto è la pagina dedicata a Giovanni Pascoli e alla poetica del Fanciullino. Siamo in una stanza a uso ricreativo della casa circondariale di Montacuto, frazione di Ancona, struttura detentiva composta sia da reparti ad alta sicurezza, sia da reparti per detenuti comuni. Uno dei dieci carceri più stipati di Italia, con 312 ospiti per 256 posti, secondo i dati dell’Associazione Antigone.

L’incontro ha il titolo “Ora d’aria, laboratorio di poesia per detenuti” ed è un progetto curato e sviluppato dall’associazione di promozione sociale Nie Wiem in collaborazione con il Garante per i diritti dei detenuti delle Marche. Nel 2021 le date dei laboratori organizzati “dietro le sbarre” sono state otto, quattro nel carcere di Montacuto e altre quattro nella vicina casa di
reclusione Barcaglione, istituto a custodia attenuata. Una decina di volontari che, pronti a darsi il cambio alle lezioni, hanno dialogato con una trentina di detenuti. Racconta Valerio Cuccaroni, presidente e tra i fondatori di Nie Wiem: “Uno degli obiettivi della nostra associazione è portare l’arte nei luoghi dove non riuscirebbe a entrare, luoghi chiusi da muri o dove la complessità è tale da richiedere interventi molto mediati. È in questo solco che nascono i nostri laboratori poetici nelle carceri”.

Il nome dell’associazione riprende una locuzione cara alla poetessa polacca Wislawa Szymborska: Nie Wiem, ovvero “Non
so”, è dunque un omaggio allo stupore che spinge all’esplorazione di sentieri sconosciuti. Ed è nel segno dello stupore e
della ricerca che i circa sessanta volontari di Nie Wiem, da ormai diciotto anni, curano ad Ancona e in tanti altri territori delle Marche, cratere sismico compreso, un caleidoscopio di attività culturali che comprende il festival di poesia “La punta della lingua” e quello di cortometraggi “Corto Dorico”, attività editoriali con la rivista e casa editrice Argo, corsi e incontri aperti alla cittadinanza, per bambini, di cinema, fumetto, o appuntamenti a più diretta ricaduta sociale, come “Ora d’aria”.

È un reticolo di attività, quello di Nie Wiem, fitto di contaminazioni e scambi, nel segno della collaborazione con altre realtà del territorio, pubbliche o del Terzo settore. I laboratori in carcere, per esempio, hanno messo radici grazie alla collaborazione avviata con due Garanti regionali dei diritti della persona, che hanno anche partecipato a qualche incontro dei laboratori, Andrea Nobili prima e l’attuale Giuliano Giulianelli, poiché come chiarisce il presidente di Nie Wiem: “Il Garante è riuscito a fare da mediatore fra la nostra associazione e le istituzioni carcerarie, facilitandoci nelle complesse pratiche burocratiche necessarie per operare in strutture detentive”.

Ma da dove nascono gli incontri nelle carceri? Da lontano, ricostruisce Cuccaroni: “Da un progetto nato nel 2006 che si chiama la ‘La parola che cura’. Quando abbiamo iniziato a organizzare una serie di laboratori e di letture pubbliche in istituti penitenziari, case di riposo o per i malati psichici. Ci siamo mossi ponendo molta attenzione alle esigenze mediche e sociali dei luoghi dove entravamo e al contempo ci siamo molto concentrati sulla preparazione letteraria degli organizzatori, con un approccio attento alla qualità dei laboratori proposti, ai bisogni e ai desideri dei partecipanti”. Sono tanti gli istituti che hanno aperto le loro porte, perché evidentemente i volontari di Nie Wiem sono riusciti a intercettare un bisogno profondo. “Un anno dopo l’altro abbiamo ideato laboratori di Haiku, o di conversazione e scrittura diaristica coi familiari di malati di Alzheimer.

“Finché nel 2016 siamo riusciti a valicare anche la soglia delle carceri, e da quell’anno non abbiamo più smesso – spiega Cuccaroni – Perché lo facciamo? Perché nutriamo una sconfinata fiducia nei confronti del potere terapeutico della parola e nella capacità che la scrittura ha di esprimere sentimenti altrimenti inesprimibili. La parola poetica riesce a portare sollievo alle piaghe più profonde dell’animo. E nelle carceri è pieno di esseri umani che riflettono e guardano in continuazione alle proprie ferite e crepe irrisolte.

La partecipazione ai laboratori, l’ascolto si è rivelato più intenso delle aspettative, poiché nei detenuti c’è una autoconsapevolezza e una dimensione autoriflessiva non comune”. Quella del 2021 è stata la quinta edizione dei laboratori di scrittura creativa negli istituti di detenzione. Il progetto nasce come parte del festival di poesia “La punta della lingua” che Nie Wiem organizza da 15 anni ad Ancona con incursione in tutte le Marche. “Ora d’aria” è divenuto così una parte imprescindibile della programmazione, che vive di vita propria rispetto al calendario festivaliero. Dove l’incontro tra parola e dimensione solidale e sociale si fa immediato, non filtrato, diretto.

Tra i volontari di Nie Wiem e di “Un’ora d’aria” ci sono i poeti Luigi Socci e Natalia Paci, oppure docenti come Cuccaroni o studenti e appassionati di letteratura. Nel corso delle varie edizioni, i volontari hanno organizzato per i detenuti degli slam poetry, ovvero delle autentiche sfide di poesia orale dove, davanti a una giuria scelta tra il pubblico, si sono “fronteggiati” poeti più famosi e detenuti. Ci sono stati dibattiti con esponenti della letteratura italiana contemporanea, con la partecipazione dei poeti Fabio Pusterla e Guido Catalano, del cantautore Davide Riondino. Lo scorso anno, quello della quarta edizione e dell’esplosione pandemica, i laboratori si sono spinti nelle case circondariali di Fermo e Pesaro, con la partecipazione dello scrittore Angelo Ferracuti e delle poetesse Franca Mancinelli e Renata Morresi. Ricorda Cuccaroni: “È stato uno dei primi incontri artistici pubblici e in presenza svolti in ambito culturale dopo le riaperture post lockdown 2020. Abbiamo trovato dei detenuti che non avevano più rapporti con l’esterno da mesi, il loro desiderio di aprirsi e trovare un contatto umano era intensissimo”.

A inaugurare l’edizione “Ora d’aria 2021” è stato Aldo Nove, una delle anime della letteratura cannibale italiana, performer, poeta, biografo che nel suo incontro ha spiegato ai detenuti come calarsi nella modalità d’animo giusta per produrre una scrittura rivolta ai bambini. “Per mettervi in collegamento, dovete porvi come se parlaste al bambino che è dentro di voi” ha spiegato il poeta ai detenuti. Sono così nate una serie di lettere che i carcerati hanno indirizzato a dei bambini, gli stessi già coinvolti da Nie Wiem in un altro laboratorio per l’infanzia, “La punta della linguaccia”. Dal particolare carteggio sono così scaturiti testi dal colore autobiografico, lettere cariche di riflessioni, risposte tra grandi e piccoli scandite dalla più pura sincerità. Un corpo di parole che ha dato il via a gettiti di confessioni e espressività creative.

“Ho tanta voglia di parlare, mi basta una parola d’affetto per sentirmi improvvisamente come quando ero piccolo” ha confidato, per esempio, con candore uno dei detenuti, un arabo corpulento, durante un laboratorio a cui chi scrive ha avuto modo di prendere parte. “Ancora riesco a stupirmi, anche in cella i miei sentimenti di improvviso si svegliano, come da bambino” è il pensiero di un uomo dai capelli brizzolati. Ognuno ha voluto leggere le proprie lettere indirizzate fuori dalle mura circondariali ai più piccoli. Testi che ad alta voce risuonano pieni di immagini. Dove un uomo racconta al suo interlocutore di quando da piccolo viveva in campagna e tanto si divertiva coi suoi amici da restare in giro fino al tramonto, dimenticandosi di dover tornare a casa, inconsapevole delle ore che passavano.

La risposta del bambino, letta da un volontario, lascia in chi ascolta un senso di stupore altrettanto forte: “Si capisce dalle tue parole che sei un uomo che ha sofferto e che riflette”. C’è poi chi legge i propri diari scritti in cella, sono pagine che inanellano ricordi della patria lontana, del viaggio migrante con la paura di morire in mare, il rimpianto per gli errori commessi. Anafore, rime interne, i detenuti hanno disseminato le loro pagine di figure retoriche anche senza rendersene conto, guidati dalla ricerca del ritmo.

L’incontro finisce a suon di rap, un giovane africano che i compagni chiamano “il nostro poeta” inizia a cantare pezzi da lui scritti. Ne ha un bloc-notes pieno, fogli e fogli di versi. “Creo sempre, in cella”, dice. E poi canta: “quando guardo alla finestra, vedo la bellezza delle foglie, che fa la vita bella, rido e sento, quando guardo al cielo sento la vita”. Le sue parole incalzano fluide e tutti trasportati dal ritmo ridono, scherzano, l’allegria coinvolge la guardia penitenziaria che dice la sua e fa domande. Il ragazzo è un musicista, spiega, su YouTube ci sono un paio di sue performance in giro per le città delle Marche, canzoni che sono delle preghiere o ricordano l’Africa, oppure sovrappongono i due piani. Il laboratorio finisce sulle onde delle sue parole, poi si torna nelle celle, ai piani superiori, con i quaderni pronti ad essere riempiti di nuove parole.

Nell’immagine un momento di uno spettacolo prodotto dai volontari dell’associaizone Nie Wiem all’interno di un istituto penitenziario nelle Marche

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