di Francesco Bizzini – 26 gennaio 2022

Il volontario. Lo yoga. Il carcere nella pandemia

 Crescono i positivi nelle carceri italiane, spesso strutturalmente impreparate a garantire la sicurezza di operatori e reclusi. Il non profit cerca di dare una mano. A Verona un volontario porta lo yoga dietro le sbarre. Funziona.

“Abbiamo a che fare con ansia, tensione, difficoltà di concentrazione, inclinazione alla rabbia o al vittimismo”, Roberto Cagliero, insegnante volontario di meditazione e yoga presso la Casa circondariale di Verona Montorio, sintetizza così gli effetti che la pandemia ha portato anche lì, dietro le sbarre. Di fatto una condizione critica comune a tutti i penitenziari italiani: secondo il report di gennaio 2022 di Associazione Antigone, realtà che dalla fine degli anni 80 lotta “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, i positivi al Covid-19 sono oltre 3000 su di una popolazione di 54000 reclusi. Situazione aggravata dall’impossibilità in molti istituti di mettere in pratica una separazione tra infetti e popolazione sana.

“Come ho iniziato? Grazie all’associazione Horse Valley di Linda Fabrello che nel carcere ha tre cavalli, curati dai detenuti a rotazione. Il progetto ha il suo fulcro nel corso di specializzazione dove imparano la morfologia dell’animale, Il pareggio e la ferratura dello zoccolo, venendo seguiti anche da veterinari. Quattro anni fa Paolo Fabrello, presidente della Horse Valley, mi ha chiesto di intrecciare i miei insegnamenti di Kundalini yoga con il “Corso cavalli”, presentando un progetto alla direzione del carcere, soprattutto sottolineando a cosa potesse servire un corso di yoga e meditazione in una struttura penitenziaria”.

E a cosa serve? “Beh, può servire per abbassare il livello di tensione nei reparti, ma anche facilitare l’approccio a degli animali di 300 Kg per persone che stanno chiuse in una stanza al di sotto della vivibilità e che giocoforza potrebbero avere problemi a interfacciarsi con una bestia di quella stazza. O almeno non è automatico”.

Ma riguardo all’impatto del Covid sulle carceri, che beneficio può dare lo yoga e la meditazione? “Come già anticipato, incontriamo ansia, tensione, ridotta capacità di concentrazione, inclinazione alla rabbia o al vittimismo, comportamenti che risultano però di radice profonda, prima della pandemia. Comportamenti tipici di coloro che hanno vissuto esperienze traumatiche. Per molti dei detenuti il carcere è solo la ciliegina sulla torta di tante cose brutte successe prima. Per questo io lavoro sul trauma. Per far ciò ho fatto un corso di specializzazione in Inghilterra”.

Il carcere è luogo dove il recluso ha davanti ai suoi occhi, sempre, il suo fallimento, c’è proprio bisogno di un volontariato volto all’accrescere la consapevolezza del proprio status? “L’idea che a togliere consapevolezza si soffra di meno è bizzarra. Tutti sono consapevoli di essere in carcere, ma si tratta di diventare consapevoli di ciò che è successo, non solo alle vittime dei tuoi reati, ma anche a te stesso. Tramite la meditazione e lo yoga aumenti le capacità percettive: si tratta di riappropriarsi del corpo, che è elemento centrale per chi ha subito traumi e che perciò fa finta che il corpo, luogo dove il trauma va a inscriversi, non esista. Tramite esercizi di contemplazione, osservando mentalmente le tue dita, le tue mani, il battito del cuore… il corpo ritorna presente”.

Funziona sempre? “Con altre volontarie abbiamo provato ad allargare questa iniziativa anche al reparto femminile, ma lì abbiamo trovato molta, ma molta difficoltà. Una cosa che non siamo ancora riusciti a decifrare. Va avanti, ma non ha mai preso piede come nel maschile. Trovo comunque che i detenuti abbiano uno spazio meditativo molto bello. Sarà perché essendo costretti tra quelle mura hanno un qualcosa di monastico, magari hanno soglie di attenzione basse, durano pochi minuti, però riesco a entrare in contatto con loro e avere la certezza che in loro si modifica qualcosa a livello mentale e di sistema nervoso. Poi sta a loro scegliere se continuare su questa strada o tornare indietro”.

Roberto opera anche presso la comunità di recupero “La Genovesa”, nel reparto adolescenti dell’Ospedale Santa Giuliana della città scaligera e ha anche contribuito a mettere in piedi, con Paola Sofia Baghini, insegnante di yoga con lui nella Casa circondariale di Verona Montorio, l’associazione Libere Lettere, una realtà di volontariato nata per fare da ponte tra detenuti e persone esterne, con l’intento di tessere rapporti epistolari che possano arricchire umanamente entrambi le parti.

Quando ne parla, come quando parla di yoga e meditazione dietro le sbarre, la sua voce è quasi emozionata, lo si percepisce chiaramente.

Lei ama ciò che fa, ma come spesso capita con il Volontariato non crede che la sua azione possa essere solo un piccolo aiuto in un sistema ampiamente deficitario come quello delle carceri italiane? “A me interessa solo il rapporto con i detenuti e cosa riesco a passare loro. Ovvio che le carceri non funzionino, ma io ho scelto d’essere volontario proprio dentro quelle strutture… e cosa mi metto a fare la vittima? Per quel poco che fai, lo fai per persone che sennò non riceverebbero nulla se non ti mettessi in gioco. Sulle disfunzioni esistono libri e libri, cosa mi metto a scrivere un libro anche io? Non voglio perdere tempo, preferisco dedicarlo a loro, ai miei allievi, con una bella lezione di meditazione”.

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