di Nunzio Bruno – 9 giugno 2022

Il fine vita e il ruolo del non profit

 Protagonisti gli Enti di Terzo settore, associazioni, le volontarie e volontari che operano sia in strutture di ricovero che a domicilio. Uno stile unico, instancabile, centrale anche per l’affermarsi delle cure palliative in Italia

Quel terribile cono d’ombra in cui nessuno vorrebbe stare. Si tratta del “fine vita” che ha come contesto gli hospice o le case dei morenti, come approccio non ancora del tutto diffuso le cure palliative e come protagonisti il malato cronico degenerativo in fase avanzata, la sua famiglia e gli operatori che si mettono a loro supporto. Questo è l’ambito nel quale si svolge un tipo di volontariato poco conosciuto, ma incredibilmente affascinante. Come testimonia Carmen Bonfiglio, già donna in carriera, “malata di lavoro” e adesso volontaria dal 2007.

Inizia per caso, dopo la visita ad un conoscente ricoverato all’Hospice di Abbiategrasso, nel milanese, un ente di Terzo settore che dal 1994 è fra i pionieri delle cure palliative in Italia. Carmen, 56 anni, già da un po’ ha in mente l’idea di mettere a disposizione degli altri il proprio tempo libero. Entrando in quella struttura per malati terminali da accompagnare a una fine dignitosa, ne rimane colpita. Chiede dei contatti, ma poi li tiene nel cassetto per un anno. Finché si butta. Fa il colloquio e viene ammessa fra i volontari.

“Da subito ho posto due condizioni, racconta Carmen, non essere coinvolta in attività religiose e, soprattutto, potermi occupare della stireria”. Sì, voleva iniziare proprio da lì. Perché in hospice c’era un odore particolare, c’era del rumore o meglio del silenzio al quale voleva abituarsi gradatamente. Sei o sette mesi così, fino a quando, non sa se per caso o in modo studiato, le chiesero di lasciare il ferro da stiro e di andare da una delle ricoverate. Non fu una cosa estemporanea e improvvisata, Carmen, come tutti i volontari, era già stata preparata a quel ruolo. Tuttavia, si trattò di una lezione sul campo, di quelle che non si possono dimenticare. “Che ride? Cosa trova di divertente? Per favore, se ne vada, non ho bisogno di nulla”. Così, infatti, l’accolse la donna ricoverata, una ex infermiera, ben consapevole della sua situazione e di dove si trovasse. In quel modo, gelò il sorriso impacciato e di circostanza di Carmen che voleva farle buona impressione, sfoderando il suo volto più simpatico. Da brava volontaria non si scoraggiò, comprese da subito il contesto e con garbo rispose che quello era il suo posto e che non sarebbe andata via. Da quel momento nacque un bel rapporto.

“Noi non siamo lì solo per far compagnia, precisa Carmen Bonfiglio, come volontari abbiamo un ruolo di supporto anche per i familiari, per l’équipe medica e gli altri operatori. Magari fra una confidenza e l’altra, riusciamo a cogliere elementi, stati d’animo, malesseri, problemi che la persona malata non riesce a dire né ai propri parenti, né ai medici”. Tanto silenzio, tanto non detto, “quel rumore” dell’hospice, o meglio del fine vita, a cui ci si deve abituare. Raramente i discorsi sono diretti. “Ci adeguiamo continuamente alle situazioni, continua Carmen. Molte volte gli ospiti e, persino, le famiglie non sono consapevoli della fase terminale che stanno vivendo. Hanno sempre un filo di speranza. E allora impari a rispondere senza dare risposte; a non creare illusioni; ad evitare confluenze; a vivere relazioni intense e a lasciar andar via; a essere utile nel momento opportuno, quanto più possibile”.

Come quella volta che si ritrovò a recitare il Rosario di Padre Pio, benché fosse a digiuno di pratiche religiose. Nonostante preghiere dimenticate e continue correzioni, la signora che le aveva chiesto di pregare insieme rimase contenta. O, ancora, il faticoso accompagnamento di un figlio che non poteva accettare che la madre morisse e sosteneva che fosse l’hospice ad avvelenarla giorno dopo giorno. Spiegare con attenzione e delicatezza in cosa consistevano le cure palliative, per poi far riprendere contatto fra madre e figlio in modo che insieme potessero prepararsi al distacco. Insomma, ogni turno di volontariato fra i malati terminali ha la sua storia. All’inizio ci si raccorda con gli operatori dell’équipe professionale per verificare chi non c’è più, chi è arrivato da poco, chi sta poco bene e non può essere disturbato. E poi, alla fine, ogni volontario chiude il suo turno con un report, in cui descrive quanto fatto ed eventuali elementi utili all’équipe di assistenza.

“Certo che penso anche al mio “fine vita”, conclude Carmen, e vivo questo mio volontariato soprattutto come un saper ascoltare; semplicemente come un voler dare un po’ di energia ed essere vicina alle persone, ritenendomi fortunata per il mio buono stato di salute. A me basta, spero basti anche agli altri. E in questo mi piace ricordare un ricoverato, totalmente paralizzato, che aiutavo a mangiare mentre in TV davano il Palio di Siena. Terminato il pasto e concluso il Palio, questo signore, che ormai muoveva solo gli occhi, mi disse: “Oggi è stata una bella giornata”. Quel giorno sono uscita con qualcosa in più dalla stanza”.

Ecco l’essenza del volontariato nel cono d’ombra del fine vita: esser capaci di esserci. Lo dice bene, Luca Moroni, direttore responsabile dell’Hospice di Abbiategrasso. Infatti, nel descrivere il ruolo e le attività dei 60 volontari che ruotano attorno all’hospice (accoglienza, segreteria, sensibilizzazione e informazione sulle cure palliative, stireria, presenza in reparto), tiene a ribadire il grande valore della loro specifica funzione: oltre ai bisogni medici, le cure palliative guardano anche ai bisogni relazionali, psicologici e spirituali. Il volontariato restituisce al malato terminale quella relazione con il territorio e con la comunità che l’imminenza della morte spezza. C’è un grande isolamento del morente e della sua famiglia, a causa dei pregiudizi sociali e delle barriere psicologiche che scattano.

Le competenze tipiche del volontariato lo rendono insostituibile perché capace di esserci ed entrare in relazione. E questa specificità va tutelata e non confusa con il ruolo degli altri operatori sanitari e professionali. “Il volontario – dice Moroni – rappresenta un pezzo di territorio e di comunità che per libera scelta dedica il suo tempo a una persona morente in una dimensione di gratuità. Dona del tempo per destinarlo interamente alla relazione con lui e con la sua famiglia”. Infine, non va dimenticato il grande contributo che il volontariato e il Terzo settore hanno dato all’affermarsi e allo sviluppo delle cure palliative in Italia. Le 102 realtà italiane che fanno parte della Federazione Nazionale delle Cure Palliative nascono per lo più da esperienze di volontariato e di solidarietà che hanno creato i presupposti perché in Italia non vi fosse chi muore solo e senza un sostegno che ne garantisca la dignità sino alla fine. Tanto che la legge sulle cure palliative (L. 38/2010) dedica uno specifico articolo al volontariato, riconoscendone il ruolo e raccomandandone la formazione con criteri qualitativi uniformi su tutto il territorio nazionale. 

La pensa allo stesso modo Tania Piccione, responsabile della direzione operativa della Samot ONLUS, ente di Terzo settore che in Sicilia opera nell’assistenza domiciliare ai malati terminali di qualsiasi età. Pure in questo caso alla base della nascita dell’ente nel 1987 sta la spinta solidaristica. Non solo. In Sicilia, a garantire cure palliative domiciliari sono soltanto gli enti di Terzo settore. Pertanto, il volontariato è essenziale per aiutare queste strutture a mantenere viva la loro ispirazione originaria e a non subire una deriva “aziendalistica”. Anche per questo la Samot ha creato anni fa un’organizzazione di volontariato, l’Avamot, che è in fase di rilancio e attualmente raccoglie 15 volontari di cui 2 impegnati a fianco dei malati terminali.

Tuttavia, il volontariato in questo ambito ha delle difficoltà oggettive.

La prima riguarda il reclutamento di nuovi volontari. Quelli attualmente operanti sono per lo più ultrasessantenni e con esperienze pregresse di assistenza a propri parenti terminali. I giovani tendono a non avvicinarsi al “fine vita”. Quelli che si propongono sovente sono professionisti in cerca di occupazione che grazie al volontariato puntano ad avere eventuali sbocchi lavorativi. Per questo l’Avamot non accoglie volontari che abbiano qualifiche già esistenti nell’équipe professionale di assistenza. In più, la recente pandemia ha impedito l’inserimento dei nuovi volontari e il prolungarsi della loro inattività li ha demotivati. 

La seconda difficoltà messa in evidenza da Tania Piccione è l’intervento dei volontari in un contesto domiciliare. Mentre nelle strutture hospice i volontari sono apprezzati e “cercati”, nell’assistenza a casa del paziente la famiglia spesso è restia ad accoglierli. Un motivo sta, probabilmente, nella struttura familiare che al Sud Italia è ancora articolata e riesce a far fronte ai vari bisogni, per cui l’apporto dei volontari appare superfluo.

Eppure, un paio di storie rivelano quanto sia determinante il loro ruolo.

Alla Samot è capitato di dover assistere un malato terminale che non aveva l’aiuto di nessuno e viveva in un contesto di assoluto degrado. In pratica, non vi erano le condizioni di base per avviare il trattamento di équipe. Non ci si è arresi e, grazie all’impegno dei volontari che insieme hanno pulito e rimesso in ordine casa, acquistato pigiami e biancheria, assistito quotidianamente il malato, le cure palliative e la sua dignità sono state comunque garantite.

O il pescatore che non ne voleva sapere di terminare la sua esistenza fra quattro mura. Nonostante l’insistenza della famiglia che lo voleva a casa, ha voluto vivere i suoi ultimi giorni sulla propria barca, attraccata al molo. Uomo di mare fino alla fine, ma in una situazione logistica praticamente impossibile per gli operatori Samot. Anche in questo caso, sono stati i volontari a dare la svolta. La loro azione coordinata ha permesso a quell’uomo di ricevere quanto gli era necessario e di spegnersi con serenità, cullato dalla luce del suo mare. 

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