di Paolo Di Vincenzo – 14 giugno 2024

Grandi media e Terzo settore, come rendere vincente il binomio

 “Tutto il bello che c’è”, rubrica del Tg2 della Rai e “Buone Notizie”, redazione del Corriere della Sera, sono i soli due spazi interamente dedicati. I consigli dei comunicatori per una visibilità migliore dei traguardi ottenuti dalle associazioni

Quando appaiono (il verbo è quanto mai appropriato in tempi di giornalismo online) ottengono grandissima attenzione e, pian piano, il granitico convincimento dei giornalisti professionisti che le buone notizie non valgono niente mentre quelle brutte muovono l’interesse del pubblico comincia, lentamente, a sfaldarsi.

Lo dicono, innanzitutto, quelli che hanno puntato su quelle positive, in particolare le responsabili di “Tutto il bello che c’è”, rubrica del Tg2 all’ora di pranzo del giovedì, che da circa un decennio pone l’obiettivo delle telecamere sugli esempi virtuosi, e di Buone Notizie, l’inserto del Corriere della Sera che si è conquistato sul campo i galloni di redazione autonoma, rispettivamente Silvia Vaccarezza ed Elisabetta Soglio.

Ma cosa manca al mondo del Terzo settore per conquistare definitivamente il cuore della stampa nazionale, i così detti giornaloni, e quali errori commettono più frequentemente le associazioni di volontariato? Alle prime due e a un esperto della comunicazione, Daniele Chieffi –giornalista, saggista, docente universitario e fondatore dell’agenzia di comunicazione strategica Bi Wise–, VDossier ha chiesto lumi sull’argomento.

Il quadro che ne viene fuori è esaltante. Se, infatti, Fiorello viene, giustamente, incensato per i suoi eccellenti ascolti mattutini su Rai 2, stabilmente intorno al milione di telespettatori, non è da meno la trasmissione ideata da Vaccarezza e dalla compianta Maria Grazia Capulli (scomparsa prematuramente nel 2015 a soli 55 anni). Un milione di telespettatori alle 13:30 è moltissimo soprattutto considerando che, quasi sempre, la rubrica supera il telegiornale dopo il quale va in onda. Promozione per merito, addirittura, per Soglio e la sua redazione che dal marzo 2023 è inserita nello “sfoglio” del Corsera (e quindi non più come inserto staccato), il più autorevole e venduto quotidiano italiano, al pari di Esteri, Interni, Economia.

Per contro, gli altri grandi gruppi editoriali italiani (Mediaset, Gedi, vale a dire la Repubblica, La Stampa e alcuni giornali locali, La7, Skytg24) non hanno sezioni specifiche (o programmi dedicati) al variegato mondo del volontariato, pur occupandosi, ovviamente, del settore con servizi, articoli e approfondimenti.

Il bene funziona, anche nei media. La promozione di Buone Notizie sul Corriere della Sera. Dopo oltre un lustro, tra settembre 2017 e marzo 2023, come inserto del più importante e diffuso quotidiano nazionale, BN da un anno è integrato nel giornale. Quindi una redazione, una sezione specifica al pari di Interni, Economia, Spettacoli…

“È una redazione di professionisti di lungo corso”, spiega Elisabetta Soglio, “colleghi che hanno scelto di partecipare a questo progetto e che, forse, hanno una sensibilità più spiccata nei confronti di questi temi”, che aggiunge di considerare la sua “creazione” come un figlio: “Sì, dico sempre che è il mio terzo figlio. Tengo a sottolineare che sono sempre stata sostenuta, anche nella fase di ideazione, da un comitato scientifico con cui mi confronto ogni volta che ne ho bisogno. Io non avevo le competenze specifiche, ma avevo intuito che fosse necessario raccontare ai lettori del Corriere anche le buone pratiche del nostro Paese, per valorizzarle, per fare da megafono a chi non si arrende di fronte ai problemi ma cerca delle soluzioni condivise, per uno sviluppo che sia solidale e coeso. Abbiamo visto che le storie e le realtà erano tantissime in tutta Italia e per questo ho pensato che avesse anche un valore etico per la mia professione. Cioè che fosse corretto, eticamente, raccontare questo mondo. È giusto che le persone sappiano che ci sono le guerre, le ruberie, le truffe, le cose che non funzionano ma ci sono anche tante iniziative positive, utili, serie. Magari l’esempio può stimolare qualcuno a replicare un modello positivo”.

E sul trend di apprezzamento da parte del pubblico la responsabile di Buone Notizie del Corsera aggiunge le autorevoli testimonianze dei vertici del quotidiano: «Sia il mio direttore, Luciano Fontana, che il mio editore, Urbano Cairo, mi dicono che ricevono spessissimo apprezzamenti da lettori che si felicitano di quanto pubblichiamo perché per tante persone è una boccata d’ossigeno. Ci sono, dunque, dei riscontri oggettivi e diretti. Abbiamo certamente avvicinato il nostro pubblico a temi che non conoscevano, questo è molto importante per noi. E poi, chiaramente, abbiamo anche avvicinato il Terzo settore al mondo della comunicazione un po’ più strutturata”.

Gli ascolti tv da record di “Tutto il bello che c’è”. Va in onda come rubrica del Tg2 dal 2014, ogni giovedì alle 13:30, ed è diventata anche un libro. Ecco il racconto della sua creatrice, la giornalista Silvia Vaccarezza. “Tutto il bello che c’è l’abbiamo ideato io e Maria Grazia Capulli, nel 2008, poi, dopo tanti tentativi, siamo riuscite a metterlo in onda diversi anni dopo. Lei era nella redazione Cultura (la giornalista è scomparsa prematuramente nel 2015, ndr) e io in Cronaca. Volevamo dare spazio alle notizie che secondo noi regalano energia positiva, mentre tutte quelle pessime la smorzano.

Avevamo pensato a un programma per raccontare l’Italia che si dà da fare, la buona sanità, la positività nel mondo della scuola, dell’istruzione, delle istituzioni. Raccontare quelle persone che il presidente Mattarella ha cominciato a premiare nella Giornata degli eroi della società civile. Volevamo parlare di persone comuni che fanno azioni straordinarie. Poteva essere il portiere del condominio che, in una parte dello stabile, crea una piccola biblioteca a disposizione di tutti, oppure il signore anziano che trasforma il piccolo spazio verde in un giardino zen aperto e gratuito. Eravamo diventate cercatrici del bello”.

Poi arriva la scommessa. “La facemmo con il direttore del Tg2 dell’epoca, Marcello Masi”, continua Vaccarezza. “Arrivò in redazione la notizia di un bambino di 10 anni di Parma che aveva scritto alla presidente Rai, in quel periodo era Anna Maria Tarantola, chiedendo un Tg di buone notizie. La presidente informò il direttore Masi che, a sua volta, visto che gli rompevo le scatole con questa idea, mi spedì a intervistare il piccolo. Io feci di più perché convinsi i genitori, separati, a venire insieme a lui a Roma a visitare i nostri studi e a conoscere sia la presidente che il direttore. Realizzai, quindi, un servizio molto lungo che fu mandato nel tg delle 18. Dissi a Masi: Se il mio pezzo fa più ascolti del telegiornale ci devi dare uno spazio fisso. Vinsi la scommessa e il direttore dovette pagare pegno. Ci diede uno spazio di un quarto d’ora settimanale dopo il tg di mezzo pomeriggio. Poi, visto che gli ascolti erano sempre molto alti, lo spostò subito dopo l’appuntamento delle 13. Sottolineo che Tutto il bello che c’è non ha una redazione, ma mi arrivano servizi da tutti i colleghi e non solo del Tg2. Come definirei questo spazio? Maria Grazia diceva sempre che doveva essere una trasmissione che deve suscitare il sorriso, che deve essere contagiosa. Vorremo diffondere esempi da emulare”.

Il pubblico apprezza molto i servizi sulla solidarietà, sul bene. “Noi giornalisti continuiamo a credere che good news is no news, le buone notizie non sono tali, invece non è affatto così. Se analizzi gli ascolti della nostra trasmissione vedi che siamo sempre sopra il milione di telespettatori, che è tantissimo. Riceviamo solo lettere, messaggi sui social, mail, di pprezzamento, di appoggio, di incoraggiamento. La maggior parte del pubblico è composto da persone di buona volontà. Nei telegiornali, nei giornali, sui siti, invece, raccontiamo solo cose che non vanno e dimentichiamo i milioni di volontari che gratuitamente, e spesso anche a proprie spese, aiutano gli altri, e poi la buona sanità, le istituzioni che collaborano, gli Stati che ignorano le rispettive differenze per iniziative di solidarietà, gli imprenditori che oltre al proprio profitto si prodigano anche per salvare il pianeta. Pure Papa Francesco insiste molto su questo punto: bisogna cercare, anche nelle tragedie, di raccontare il lato positivo. Lo ha ribadito, tra le tante volte, recentemente a proposito del bambino che era caduto nel pozzo in Marocco: è vero, lui purtroppo non ce l’ha fatta ma tutto il popolo si è unito per salvarlo. Sono i santi della porta accanto”.

Il bene non fa vendere i giornali, non aumenta gli ascolti di radio e tv, non genera clic sui siti o sui social. Intanto, è davvero così? O il pubblico, visto anche quello che ci accade intorno, comincia a rivalutare il senso del bene, della solidarietà? Non pare avere dubbi Daniele Chieffi, “Da giornalista”, risponde il fondatore dell’agenzia di comunicazione strategica Bi Wise, “sono d’accordo in linea di principio. Continua a fare più rumore il fatto di cronaca violento, la brutta notizia, ma in realtà –soprattutto in un contesto digitale– è la storia, la narrazione, la persona, la veicolazione di un valore che riesce a coinvolgere il pubblico. Se dovessi utilizzare un linguaggio tecnico direi che il Terzo settore non deve fare comunicazione ma comunità, community. Quindi non deve utilizzare, sempre e comunque, le metriche giornalistiche ma l’engagement, il coinvolgimento. Chi non ha fame di essere coinvolto in una narrazione positiva, chi di noi non si ferma a leggere la storia, ben scritta e ben raccontata, del personaggio che dedica il proprio tempo agli altri? Negli anni Ottanta l’unico modo per far conoscere il mondo del volontariato erano i giornali, oggi ci sono altri strumenti”.

Ma i social, sono un campo dove il volontariato può avere cittadinanza? I social sono una delle piattaforme a disposizione. Non possono e non devono essere gli unici. Innanzitutto perché servono fondi per fare pubblicità, si paga per essere ben visibili sulle piattaforme, poi perché sono una parte della narrazione. Oggi, anche con piccoli budget si possono fare campagne efficaci, ma bisogna avere una preparazione professionale. E questo è un aspetto da valutare con attenzione, ricorda Chieffi, i comunicatori devono essere formati anche in questi ambiti: “C’è bisogno di una credibilità istituzionale, quindi è necessario diventare interlocutori delle istituzioni; è necessario passare dagli eventi, da campagne pubblicitarie. Insomma, una azione coordinata di strumenti pensati in maniera coerente e strategica di cui i social sono un elemento importantissimo, ma non unico”.

I consigli alle associazioni: dalla storia al progetto. Ma cosa deve fare il mondo del Terzo settore per essere più ascoltato, per trovare più facilmente spazio nel mondo, oggi sempre più complesso, dei grandi media generalisti? “È una domanda che mi viene rivolta spesso ma mi fa molto piacere puntualizzarla e lasciarla scritta”, sottolinea Elisabetta Soglio. “La prima cosa è che troppo spesso gli stessi rappresentanti del Terzo settore non si rendono conto della ricchezza della materia che maneggiano. Sono proprio loro che, per primi, non la raccontano. E allora magari arriviamo noi, dal giornale, e vediamo aspetti, caratteristiche, particolari che chi vive ogni giorno le realtà del volontariato non riconosce come meritevoli di divulgarle. Quindi direi ai volontari di usare uno sguardo diverso alle rispettive esperienze. Il secondo consiglio è non essere troppo autoreferenziali ma imparare a mettersi in rete: se una associazione realizza una iniziativa importante anche le altre dovrebbero apprezzarla, fare un plauso e, magari, provare a replicarla. E poi capire che ai giornali interessano le storie, non i progetti in sé. Se mi racconti di un inserimento lavorativo di trenta donne, vittime di violenze, che erano rimaste disoccupate rischi di appassionare poco il giornale. Se, invece, parti dalla storia di una delle donne e io posso farne un titolo, me lo rendi, come diciamo noi, notiziabile. Dalla storia racconto il progetto”.

“Bisogna considerare”, le fa eco Silvia Vaccarezza, “che, per fortuna, di associazioni ce ne sono a migliaia, e talvolta non è semplice raccontarle. D’altra parte, tante volte, c’è una sorta di resistenza ad affidarsi ai giornalisti, a lasciare che il professionista usi il proprio gergo, la propria capacità di comunicazione, con le necessarie semplificazioni della divulgazione. È come se ci si chiudesse in un linguaggio specifico del Terzo settore, che però non arriva al grande pubblico, non buca il video, diremmo in tv. Bisognerebbe prestarsi a essere raccontati in una maniera semplice e non limitarsi a una comunicazione troppo settoriale, troppo ingessata che non funziona. La formula, credo migliore, è far parlare i protagonisti che raccontino il loro senso di appagamento, di pienezza di vita, di motivazione, di felicità, facendo i volontari. Una formula, tra l’altro, che potrebbe invogliare altre persone a impegnarsi, non foss’altro, per emulazione, per provare se è così”.

Il Terzo settore comunica meno di quello che dovrebbe, aggiunge Daniele Chieffi, “non benissimo, perché spesso e volentieri parla a se stesso e questo è un problema, e dovrebbe comprendere meglio un elemento basilare: è una parte fondamentale nella società italiana ma ciò non vuol dire che incarni di default il concetto di bene. In un mondo dove tutto è in discussione, opinabile e giudicabile anche il suo ruolo va ripensato in funzione comunicativa. Il problema identitario è che il Ts è stato superato dal mondo profit sui grandi temi fondanti. Prima aveva, diciamo così, il monopolio della comunicazione della solidarietà, della sostenibilità, dell’ambiente, dei buoni sentimenti.

Da qualche anno tutto ciò è diventato appannaggio anche del profit. Il Terzo settore, naturalmente, incarna questi temi ma subisce la concorrenza delle aziende che hanno strumenti e potenza di fuoco enormemente maggiori. Il limite, quindi, è che non si colgano le esigenze tecniche, comunicative –sottolineo comunicative–, del profit che si potrebbero e dovrebbero utilizzare per costruire quella visibilità, quella narrazione verso il pubblico che in questo momento manca”.

Il rischio green washing anche nel volontariato. L’antidoto? Fare le verifiche. Esiste la possibilità che qualcuno (come accade per i temi ambientali, appunto il green washing) usi il Terzo settore come un modo per rifarsi una verginità? I recenti fatti di cronaca tra influencer e aziende l’hanno mostrato violentemente. Quali antidoti si possono usare? Ecco cosa ne pensa la responsabile di Buone Notizie: “Sui fatti di cronaca che hanno coinvolto beneficenza e influencer il Terzo settore non c’entrava nulla, il problema è che quel caso ha rovesciato un mare di fango sul volontariato. Quando la presidente del Consiglio dice: Daremo le regole per la beneficenza, io rispondo che le regole ci sono già, c’è il registro unico (Runts – Registro unico del Terzo settore), ci sono le norme sulla trasparenza, ci sono i bilanci. Per cui, credo che gli antidoti esistono. Poi, certo, esistono anche quelli che fanno i furbi, che usano la finta beneficenza o per fare pubblicità a se stessi o alla propria azienda, o che usano male, o parzialmente, i soldi che vengono donati per un fine nobile. Questo è il motivo per cui”, puntualizza Elisabetta Soglio, “io con i miei cronisti, con la mia rete di collaboratori molto estesa, cerco sempre di fare delle verifiche serie e puntuali a quello che ci viene raccontato. Anche su questo, come i giornalisti dovrebbero fare sempre, le notizie si verificano non è che ci si ferma al comunicato stampa. È ovvio che poi, gli svarioni li abbiamo presi e li prendiamo tutti. Ma l’antidoto è semplicemente fare correttamente il proprio mestiere”.

Qualche storia esemplare. Vietato calpestare i sogni. “La nostra prima copertina”, prosegue la responsabile di BN del Corsera, “è stata dedicata a Progetto Quid, una cooperativa di giovani veneti, guidati da Anna Fiscale, che avevano tutti lauree e master alla Bocconi, con carriere aperte in campo aziendale, economico, manageriale ovunque, e invece hanno fatto una scelta di campo precisa. Sono partiti da quelli considerati gli scarti delle stoffe per fare abiti. Quindi hanno attivato l’economia circolare, riusando ciò che viene scartato dalle grandi aziende della moda italiana, e offerto lavoro a persone a cui la società non dava più un’occasione. Io ho proseguito il mio rapporto con Anna e con i suoi compagni di avventura e sono felice di poter dire che la sua azienda è cresciuta ed è, oggi, una impresa sociale che ottiene risultati eccellenti, che ha aperto negozi, che ha retto all’onda d’urto del Covid, che assume sempre più donne. Abbiamo scommesso su giovani, innovazione e possibilità di fare una economia sociale e civile e hanno vinto loro e noi con loro. L’altro esempio che mi piace citare è PizzAut (tra l’altro stiamo preparando un libro su quest’altra esperienza), la pizzeria con i ragazzi autistici che ha inventato Nico Acampora e che ha ricevuto riconoscimenti da Papa Francesco e dal presidente della Repubblica Mattarella. Li seguo fin dall’inizio e sono molto affezionata a loro e allo slogan di Nico: Vietato calpestare i sogni. Mi sembra una bella immagine per chi si propone di cambiare il mondo, come tutti quelli che sono impegnati nel Terzo settore. Secondo me un po’ di sano idealismo cifa bene, ci fa bene sognare e, soprattutto, la storia di PizzAut dimostra che se credi nei sogni qualche volta si realizzano”.

Tre gli esempi anche da parte di Silvia Vaccarezza: “I ragazzi di Take me back, di Chieti. Loro hanno iniziato a fare i corrieri solidali: vanno nei luoghi dimenticati del mondo (Sri Lanka, Tanzanìa), contattano le persone del posto e consegnano vestiario e materiale scolastico. Raccolgono fondi online e poi acquistano, in quei Paesi, il materiale e lo vanno a consegnare direttamente nelle mani dei bambini. Filmano tutto, per la massima trasparenza nei confronti dei donatori, ma anche per coinvolgere altre persone e condividere le proprie esperienze. Su Netflix c’è il loro film Serendip (registrato in Sri Lanka) e più recentemente hanno realizzato Safara, che testimonia la loro esperienza in Tanzanìa. Un’altra bella esperienza”, conclude la responsabile di Tutto il bello che c’è del Tg2, “è quella di Francesco the S-Hope, uno shop online (che ora si chiama Clothest) di abiti e accessori di seconda mano di Montevarchi (Arezzo), il cui ricavato viene interamente donato alla casa famiglia Caritas della parrocchia del Giglio della cittadina toscana. Sono venti ragazzi tra i 18e i 30 anni uniti dalla voglia di fare qualcosa di concreto per chi è meno fortunato. Infine, mi piace ricordare il premio Buone notizie di Luigi Ferraiuolo, di Caserta, che vuole promuovere chi fa buona informazione, soprattutto nei posti a più alta presenza mafiosa”.

Infine una testimonianza da parte delle associazioni. Ecco il racconto di Letizia Baldetti, vicepresidente di Clothest, una associazione di promozione sociale (Aps) di Montevarchi, in provincia di Arezzo, protagonista di uno dei primi servizi di Tutto il bello che c’è. Il nome si può tradurre con il superlativo assoluto di vestito: vestitissimo, per indicare il massimo in fatto di moda. L’associazione di promozione sociale, infatti, si occupa di raccogliere abiti firmati, costosissimi, ancora in ottimo stato ma che tante persone non indossano più e magari pensano di buttare, per riciclarli e rivenderli a prezzi minimi. Il ricavato viene interamente devoluto per finanziare la Casa Famiglia Caritas di Montevarchi, che aiuta circa duecento persone all’anno.

“Quando è venuta Silvia Vaccarezza”, spiega Baldetti, “ci chiamavamo ancora Francesco the S-hope. Era un gioco di parole tra l’ispirazione e il modello sia del santo di Assisi che del Papa, da poco salito al soglio pontificio. Da un po’ abbiamo cambiato nome, aperto un sito online, ci siamo costituiti in associazione e abbiamo strutturato meglio tutto il nostro lavoro –che prestiamo senza alcun tipo di remunerazione. Dopo il faro acceso sulla nostra attività da Tutto il bello che c’è, l’interesse è continuato nei nostri confronti, tant’è che si sono occupati di noi sia Buone Notizie del Corriere della sera che la Repubblica, ma anche Uno Mattina della Rai e Rai Tre Toscana ci hanno dedicato servizi.

Il nostro desiderio sarebbe quello di riuscire a costituirci come impresa sociale e ad assumere qualcuna delle persone che sosteniamo”. “Che consiglio darei ad altre associazioni di volontariato per avere una maggiore visibilità nel mondo dei media generalisti? Puntare su un’idea forte. È vero che le testate giornalistiche importanti sono più portate a dare spazio a brutti avvenimenti ma”, conclude Baldetti, “devo dire che noi abbiamo incontrato tanti giornalisti interessati al progetto e sono stati molto felici di raccontarlo. Anche la beneficenza è un argomento di grande richiamo ma c’è bisogno di quel quid in più”.

Silvia Vaccarezza ideatrice e conduttrice di Tutto il meglio che c’è, la rubrica del Tg2 della Rai

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