di Pietro Raitano – 14 marzo 2022

Paolo Iabichino. Comunicare la Solidarietà non è marketing

 Emula il profit, rincorre le piattaforme ma ha anche un’opportunità storica: farsi garante della bontà dell’agire delle imprese. Il Terzo settore e la “giusta” comunicazione, secondo l’esperto milanese

Paolo Iabichino, come si comunica la solidarietà? È un tema che frequento da anni: ho sempre scritto per il Terzo settore, e spesso ho portato realtà non profit in agenzia (e per questo il direttore finanziario mi guardava male…). La verità è che, lavorando col non profit, mi sono reso conto che molto spesso l’atteggiamento progettuale si porta dietro un po’ della
tossicità del marketing, tipica del profit. È il bicchiere mezzo vuoto. In altre parole, temo che il sociale abbia preso a prestito un po’ delle cattive abitudini del profit, come in una sorta di mitologia, ancorché anacronistica. Intendo ad esempio il “mito del testimonial” o dell’influencer.

La rincorsa ad arruolare il personaggio di turno, soggetti che oggi sono diventati delle vere e proprie testate giornalistiche. Con la differenza che non sposano quasi mai le cause che sostengono per brevi periodi: oggi con te, domani con qualcun altro. Fa bene a tutti darsi una spolverata di sociale, ma poi l’impegno reale non viene interiorizzato. Ne deriva, nel mondo del non profit, un uso improprio dei canali digitali, il ricorso a logiche di reach, molto orientate al marketing. Mi sembra manchi un po’ di narrazione, rilevanza, che invece servirebbe al “sociale” per raccontare il proprio impegno e il proprio impatto. Al contrario, ci si muove un po’ troppo velocemente, per inseguire la velocità delle piattaforme.

Il paradosso è che dall’altra parte il mondo “profit” fa il cammino inverso. Chi fa mercato ha ormai inserito nella propria agenda certe tematiche – inclusività, lotta alle disuguaglianze, clima… – E si rende conto che non si può più fare business come prima. I motivi sono molti: i fondi di investimento sono esigenti su questi temi con le aziende dove investono, le giovani generazioni non ci stanno a mettere nei carrelli certi prodotti… e infine la forza lavoro, i talenti, non ha voglia di mettersi al servizio professionale di aziende, imprese e realtà non portate al cambiamento. In questo “chiasmo” le organizzazioni non profit hanno un’opportunità irripetibile, quasi storica: farsi loro stesse garanti della bontà dell’agire delle imprese. Lo vedo nel mio lavoro: quando devo firmare una campagna pubblicitaria si guarda alle organizzazioni non profit come possibili partner trasformativi.

Il profit ha bisogno del non profit? L’azienda che ha deciso di cambiare ha bisogno di noi: noi diventiamo testimonial, sentinelle e guardiani. Anche per non essere manipolati, secondo quel fenomeno che io chiamo dell’ipernarrazione: la retorica buonista fa da padrona, e l’organizzazione non profit che affianca l’azienda rischia di diventarne complice. Ma se le cose filano lisce, questo ruolo, questa partita la possono giocare anche le piccole realtà, visto il continuo e crescente interesse per le imprese all’impatto sociale nelle micro territorialità.

E questa è la parte della faccenda che considero il bicchiere mezzo pieno: comunicare il sociale non è solo per chi lo fa, ma obbligatorio per chi fa mercato. Facendo profitto anche occupandosi del bene comune. In questo senso dobbiamo essere molto bravi a difendere i territori, dare vita a partnership trasformative, degne di questa intenzione. A titolo di esempio: se un’azienda decide di investire sul monitoraggio “etico” delle filiere, collaborando con realtà impegnate da sempre nel settore, come Oxfam, da lì non si scampa. L’uso “pubblicitario” di questo impegno arriverà sempre dopo. A essere sinceri, vale anche per noi comunicatori: non siamo più tanto disposti a usare il “magico” linguaggio della creatività senza che segua un fatto consistente. L’impatto è dire quello che fai, non fare dichiarazioni di intenti. Raccontare lo sviluppo degli impegni che sono stati presi!

Il non profit si è fatto “soffiare sotto il naso” le sue parole? Purtroppo vedo l’incapacità, da parte delle organizzazioni non profit, di portare avanti quella che chiamo una “malizia proprietaria”. Alcune realtà inseguono false credenze, e la tossicità
del marketing più stremo, come nel caso del pietismo a tutti i costi – pornografia emotiva che comunque funziona. Eppure ci sarebbero tante storie da raccontare, senza ricorrere a trucchetti che arrivano – fuori tempo – dal profit. La grammatica è nostra!

Quali sono gli strumenti che il non profit dovrebbe utilizzare? L’equivoco è nella domanda stessa. Niente si risolve solo con gli strumenti. Li abbiamo tutti n verità, e tutta la tecnologia di cui abbiamo bisogno. Dobbiamo ribaltare l’equivoco e anziché guardare lo strumento, guardare l’obiettivo. Le organizzazioni non profit non devono “individuare il target”! Questo lo fanno le aziende – ed è una dinamica antica ormai. Al non profit serve avere come obiettivo un pubblico, un interlocutore: questo fa scrivere ogni messaggio in maniera diversa. Ovvero, è diverso se dici: “questo è il mio target cui vendere un prodotto”, oppure “questo è il pubblico che vorrei coinvolgere”.

Si tratta di generare consenso, e lasciarsi anche la possibilità di co-creare, o perlomeno di partecipare. Al target chiedi di compilare un bollettino, al pubblico di partecipare a una narrazione. Si tratta dunque di ragionare sull’atteggiamento progettuale, comprendere quali siano le domande che ci facciamo all’inizio del processo che porta, alla fine, a un messaggio. Negli strumenti non c’è niente di sbagliato o di giusto: tutto dipende dalle domande che ti fai. Per troppo tempo il marketing, anche quello sociale, ha usato la semantica della guerra: target, piani, strategie, tattica. Un vocabolario belligerante. Io preferisco quello che viene chiamato “lovemark”, ovvero l’utilizzo del vocabolario dell’amore: relazione, fiducia (non fidelizzazione!). È il motivo per cui non amo utilizzare la parola “piano”, alla quale preferisco “progetto”. Credo derivi anche dal fatto che ho imparato a scrivere la pubblicità in Rete, un po’ nell’illusione che ci fosse un rapporto diretto col mio interlocutore.

Però con la Rete dobbiamo fare i conti quotidianamente. Se c’è qualcosa di buono che le piattaforme hanno fatto è che ci hanno instradato sulla via obbligatoria della comunicazione. Una sorta di educazione alla parola. Siamo tutti costretti a metterci in scena, a utilizzare il linguaggio della scrittura. È una responsabilità forte. Anche per questo motivo abbiamo l’urgenza fortissima di “bonificare” l’habitat digitale. Che ciascuno si interroghi sul ruolo che vuole giocare in questa partita. È l’ecologia dei media di cui scrive Fausto Colombo. Se l’habitat è inquinato, intossicato, noi dobbiamo diventare attivisti per bonificarlo. La responsabilità maggiore ovviamente è di chi fa comunicazione.

#Ibridocene è un breve saggio che raccoglie le riflessioni a margine di una serie di dialoghi, condotti in pieno lockdown. Vi sostieni che gli ultimi anni sono stati quelli di un’età di mezzo che ha superato la fluidità del postmoderno, per affacciarsi su un contemporaneo difficile da decifrare e definire. Dove la pandemia ha accelerato un guado che si era ormai reso urgente e necessario. Si tratta di un’invenzione nata per codificare un passaggio epocale, quasi da un’era geologica a un’altra. Provo a fare il punto sulla necessità di superare le grandi polarizzazioni del passato, del tempo da cui arriviamo, e del nuovo tempo cui stiamo tendendo. Credo che noi potremmo fare un salto di specie se anziché interrogarci su quanto era meglio prima o quanto fantasmagorico sarà il domani, capissimo dove sta il punto di incontro. Siamo in un tempo sospeso, su un camminamento non fortificato da esperienze e case history. Un percorso incidentato, rischioso: si sbaglia e si sbaglierà. Siamo di fronte a un bivio antropologico: da una parte il ritorno alle strade già battute, dall’altra un sentiero decisamente inesplorato
dove ci sono solo pochissime tracce, quelle di chi sta provando a mostrare rotte misteriose, ma ricco di nuove opportunità.

Ad esempio: se ci interroghiamo sulla contrapposizione tra didattica a distanza e didattica in presenza, manchiamo l’appuntamento con il rinnovamento dell’istituzione scolastica. La scuola deve essere rimodellata, e questo processo deve
essere condotto tenendo insieme i pro e i contro. Invece oggi la scuola rimane uguale, la logica della performance vince, non c’è avvicinamento verso dinamiche che siano capaci di scardinare le dialettiche, non si riflette sugli strumenti. Oppure, un altro esempio: profitto e bene comune sono sempre stati contrapposti, invece, io credo possano andare straordinariamente bene insieme. Ecco: Ibridocene è il tempo in cui le ibridazioni guidano l’incontro di poli contrapposti. Peraltro, la chiamavo Età Ibrida quando ancora non c’era il Covid, che ha reso tutto più urgente. Non a caso in copertina c’è un funambolo. Che vuol dire che indietro non si può tornare.

Sarai tra i protagonisti della Civil Week, dal 5 al 8 maggio 2022. Sono felice di poter aiutare a costruire il contenitore che servirà a rendere un po’ meno fluido, liquido, disperso, lo straordinario mondo dell’associazionismo. C’è la spinta a rendere tangibile questo mondo, a far convergere le realtà, purché si assumano la responsabilità di essere un piccolo tassello di
un enorme mosaico, e di raccontare le proprie storie. Sarà un’occasione irripetibile per dare al volontariato un senso di comunità, dove tutte le organizzazioni convergano. La Civil Week non farà altro che potenziare l’attenzione che fa del volontariato “una fonte di energia civica straordinaria”, per dirla con le parole del nostro Presidente della Repubblica.

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