di Ksenija Fonović – 1 febbraio 2024

Non profit sotto inchiesta: evitiamo generalizzazioni

 Dal caso Qatar gate all’affaire Mafia Capitale, quando singole realtà vengono accusate di un reato o coinvolte in una vicenda giudiziaria, è l’intero comparto a perdere di credibilità: non solo in termini di visibilità ma spesso anche in tema di accesso ai fondi

È un assioma: il volontariato nei media è poco presente. Tranne in certe occasioni. In Italia, il Natale, i disastri naturali. A livello globale, guerre, carestie, pandemie. Questo tipo di situazioni, nelle quali l’attivazione dei cittadini acquisisce visibilità e approvazione dell’opinione pubblica, ingenerano un fenomeno di generalizzazione, positiva, a priori. Il non profit, le associazioni, gli attori dell’economia sociale, il volontariato con la V maiuscola qualunque cosa questo significhi –tutti insieme appassionatamente– sono, siamo i “buoni”. I generosi, i disinteressati; gli angeli. E malgrado su questo appellativo si levino voci critiche piuttosto isolate da parte delle reti del Terzo settore ma forti e chiare dai giovani che accorrono a spalare, dall’alluvione di Genova del 2014 a chi “burdél del paciug”, i ragazzi del fango dello striscione di Cesena dell’alluvione della primavera 2023, al volontariato questo marchio valoriale giova. In inglese si chiama soft glow, la luce morbida, l’alone della specchiata moralità e altruismo.

Ogni tanto, però, dalla cartolina del paesaggio lindo e pinto esplode un grido di Munch: uno scandalo. Una distrazione di fondi, un giro di mazzette, un abuso. E’ coinvolta una cooperativa, una fondazione, una sigla che riconosciamo per aver raccolto i fondi per una buona causa. E il cittadino si sente tradito. Sembra essere venuto meno un bene prezioso sul quale contavamo senza riserve. Si chiama capitale reputazionale. Permette di attivare con facilità e mantenere vitali i canali di fiducia tra i cittadini e le organizzazioni. È questo che permette l’aggregazione delle risorse per gli obiettivi che l’associazione persegue: le donazioni, i finanziamenti pubblici, l’attivazione volontaria, la credibilità nelle azioni di advocacy, la delega senza riserve per agire nelle situazioni delicate e con persone in condizioni di fragilità. Il terzo settore nella sua interezza beneficia di questa bene-volenza pubblica. E spesso, su questa si adagia. È più facile essere convinti che la credibilità ci è dovuta per la nostra presunta superiore “qualità morale”, che non preoccuparsi di doversela conquistare giorno per giorno.

Al contempo, però, in questa situazione di privilegio è insita un’insidia. Quando un’istituzione non profit viene accusata di un reato o altrimenti coinvolta in una vicenda giudiziaria, difficilmente viene individuata con nome e cognome, come una singolarità. Qualunque sia l’illecito o il crimine o l’omissione colpevole che abbia commesso, il peso negativo che questo esercita sull’opinione pubblica è aumentato a dismisura da quel fattore immateriale costituito dal sentimento dell’inganno– perché negli occhi della gente il volontariato deve poter essere sopra ogni sospetto. Il meccanismo che scatta non è la rabbia contro il colpevole, ma un senso di delusione che colpisce l’intero settore.

Questo comportamento dell’opinione pubblica offre il fianco facilmente a chi non è partigiano del mondo associativo: diventa facile propagare l’idea che l’altruismo è solo una maschera. Quindi, come si può fare? Scrollare le spalle di fronte all’apparentemente inevitabile e aspettare che passi la buriana dello scandalo del momento, non è un’idea propriamente brillante. Per due ragioni. La prima ragione è che non si tratta di eccezioni, ma di piccole crisi ricorsive. E’ successo in tutta Italia. Nell’arco di qualche anno, tra il 2014 e il 2017, scandali con gli stessi ingredienti al Nord, Centro e Sud.

L’indagine sul Fondo di rotazione della Regione Veneto aveva portato alla luce –non per la prima volta– preoccupanti commistioni tra la politica e il mondo cooperativo. Stessa combinazione di ingredienti –soldi che passano, illecitamente, in ambedue le direzioni, tra alcuni amministratori e politici e alcune cooperative– ha portato nel Lazio a 44 arresti con la affaire nota come Mafia Capitale. In tre province della Campania –Napoli, Caserta e Salerno– alcune cooperative affidatarie di un servizio sociale di un ente pubblico sono state coinvolte nei “reati di abuso d’ufficio, turbata libertà degli incanti, peculato, falso in atto pubblico, in materia elettorale, in materia di illecito trattamento dei dati personali, truffa in danno di ente pubblico.”

E mentre di cosa fanno i volontari tutti i giorni i media non parlano, questo tipo di notizie rimbalza di testata in testata, in particolare online: i dati Audicom del giugno 2023 registrano un aumento delle letture in formato digitale, trasversalmente tra i diversi gruppi demografici. Oltre sei italiani su dieci sfogliano almeno un titolo al mese. Si è quindi molto esposti all’erosione del capitale reputazionale. Corre forse l’associazionismo il rischio di seguire la parabola discendente che nell’opinione pubblica ha già indebolito la credibilità della politica? Neanche 4 su 10 italiani esprimono fiducia nel Parlamento (dati Istat, maggio 2022) e solo un quinto si fida dei partiti politici. A luglio 2023, Maria Cristina Antonucci, ricercatrice del Cnr, in sintonia con la maggioranza dei politologi e sociologi europei che osservano la società civile, descrive questa situazione come “crisi sistemica di fiducia nei confronti delle organizzazioni collettive” che si riverbera anche in un “generale crollo della reputazione dell’intero (Terzo) settore”.

La seconda ragione per cui non si può ignorare la portata del problema è perché si tratta di una problematica dai tratti universali. Nel 2022 il cosiddetto Qatar-gate ha coinvolto in un’indagine sui finanziamenti illeciti esponenti del Parlamento europeo e due organizzazioni non governative, attive nel campo dei diritti umani a livello internazionale. Ambedue avevano coinvolto nei consigli direttivi personalità pubbliche di chiara fama. Due scafati giornalisti della scena politica europea, Sarah Wheaton e Vincent Manancourt, lo descrivono così: “È relativamente facile mettere su una organizzazione non governativa a Bruxelles.

È molto più difficile conquistare la credibilità. In un contesto dove le connessioni sono valuta, aiuta mostrare chi conosci.” Associare il proprio nome a un ente del Terzo settore, in qualità di dirigente, volontario o promotore, permette di beneficiare dell’aureola della “luce buona” del merito etico, che ben si può mettere a valore nella vita pubblica. Se però l’organizzazione si inceppa in un giro di malversazioni, anche solo sospette, il danno all’immagine è notevole, talvolta permanente. E più la scena si fa internazionale, e più coinvolge categorie fragili o questioni politicamente dense di conflittualità, più sale la temperatura dell’esposizione mediatica. Con questa, aumenta il disamoramento dei cittadini.

Come contrastarlo? Ora, è indubbio che i dettami e gli strumenti progressivamente messi in campo dal Codice del Terzo settore, in primis lo stesso Runts, favoriscono la trasparenza e la standardizzazione del rendere conto da parte degli enti. Questo è stato considerato, da tempo e universalmente, come principale antidoto ai fenomeni di collusione, corruzione e truffa. A valle delle vicende di Mafia Capitale e a monte della Riforma (nel 2014), Adriano Propersi, economista e commercialista del non profit milanese, uno dei principali esponenti dell’Agenzia per il Terzo settore (dal 2007 al 2012), reclamava semplicemente “bilanci chiari e vertici responsabili”.

Ma questo non basta. E soprattutto, non bisogna perdere di vista che rischi di comportamenti organizzativi illeciti, e dunque le conseguenti misure sia di prevenzione che di mitigazione, non riguardano universalmente la totalità del Terzo settore. La stragrande maggioranza delle vicende giudiziarie che hanno esposto alla censura dell’opinione pubblica e danneggiato l’immagine positiva del terzo settore hanno avuto per protagonisti, negativi, un certo tipo di enti: cooperative e ong che gestiscono servizi, ingenti bilanci e rapporti consolidati con la politica. Sono enti di natura, dimensioni e missione organizzativa molto diverse dal tessuto diffuso delle associazioni di volontari operanti per gli interessi generali che costituiscono praticamente l’80 per cento del non profit in Italia.

Due studiose, Soha Bou Chabke e Gloria Haddad (università Saint-Joseph de Beyrouth), hanno analizzato i fattori che favoriscono la corruttibilità delle istituzioni non profit sul caso degli aiuti umanitari ai profughi siriani nel Libano. Insufficienti sistemi di controllo e rendicontazione finanziaria, sono un fattore importante, ma non l’unico aspetto da considerare come potenziale anello debole. Tra le pratiche gestionali, quindi fattori interni alle organizzazioni, che possono rappresentare fattori di rischio nell’esposizione ai comportamenti organizzativi illeciti, espongono anche: rapida crescita, in particolare in assunzioni di risorse umane; nepotismo e forti relazioni informali all’interno delle organizzazioni; e debolezze nella gestione delle attività.

E su questi aspetti, ogni organizzazione può essere solo responsabile in proprio. Però, oltre ai fattori interni all’organizzazione, vengono individuati anche due sotto-insiemi che potenzialmente chiamano in causa il possibile contributo anche di altri attori. In primo luogo, il contesto generale che può essere più o meno favorevole, oppure più o meno efficacemente ostile alla corruzione. Fattori contestuali come la stabilità politica, la solidità e la trasparenza delle procedure in atto delle istituzioni e la capacità del pubblico a governare la tematica.

In sostanza: più confusione c’è nel contesto, più facile diventa pescare nel torbido. Banale, ma evidentemente universalmente vero. Il secondo aspetto che può influire sulla facilità con cui è possibile commettere illeciti, secondo le autrici riguarda il coordinamento tra gli attori nella sfera pubblica. Tradotto in linguaggio comune: il lavoro di rete rafforza i meccanismi, anche impliciti e informali, della peer accountability, il senso di responsabilità delle organizzazioni nel rendere conto non soltanto al finanziatore o all’entità gerarchicamente sovra-ordinata, ma anche ai colleghi, ai partner, ai portatori di interesse diretti e indiretti.

In queste ultime due sfere, di contesto e di modalità di azione pubblica, le associazioni di volontari dovrebbero maggiormente investire. Per contrastare gli effetti negativi dell’esposizione alle conseguenze generalizzate degli scandali mediatici, bisogna rafforzare gli anticorpi. Siamo chiamati a dedicare maggiore attenzione alla cura della vita democratica, poiché questa sola costituisce la necessaria pre-condizione per riguadagnare e consolidare il capitale reputazionale del Terzo settore.

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