di Francesco Bizzini – 31 maggio 2023

Le ragioni di questi ragazzi

 Speciale volontariato che infrange le regole. Intervista a don Mazzi, fondatore negli Ottanta di Exodus. Occupò illegalmente la Cascina Molino Torrette a Milano

Allergico per natura a chi si disinteressa dei problemi sociali, soprattutto quelli che affliggono i più giovani, don Antonio Mazzi fonda negli anni Ottanta progetto Exodus. Di fatto lo fa occupando illegalmente la storica Cascina Molino Torrette immersa nel parco Lambro di Milano, dove da poco ha spento 94 candeline. Un gesto estremo per svegliare le istituzioni che, in quei difficili anni, sembravano incapaci di reagire alla piaga dell’eroina e agli ultimi morsi del terrorismo. A lui, prete di strada e instancabile voce fuori dal coro, abbiamo chiesto se esiste una ribellione costruttiva e come questa può essere motore per l’attivazione delle nuove generazioni in termini di volontariato.

Don Antonio, anche lei ha iniziato con un gesto fuori dalle regole, vero?

Sì. Ai tempi abbiamo occupato la cascina dove ci troviamo oggi. Sinceramente abbiamo messo il Comune davanti al fatto compiuto. Il permesso di starci ci è arrivato dopo. Hanno quindi subìto la nostra scelta perentoria, ma loro, essendo disorientati dalla paura per ciò che Milano era diventata, non hanno manco provato a opporsi. Erano di fatto completamente in balia di una città intrappolata tra eroina e terrorismo. Ma il mio non è mai stato un ribellismo fine a sé stesso, era un gesto concreto. Il parco Lambro era fuori controllo, la situazione era tragica, io ho semplicemente fatto qualcosa per affrontare il problema, il più presto possibile.

Ma un attivista, un volontario, non si dovrebbe sentire in colpa facendo così?

In colpa non si deve sentire chi si attiva per il bene di tutti, ma chi gli tarpa le ali. Noi il complesso di colpa non dobbiamo proprio svilupparlo. Perché anche la mia non è stata mai una ribellione fine a sé. Oserei dire che, semplicemente, avevo una ragione buona. Con la burocrazia italiana, gli iter preposti, si perde tanto di quel tempo. Quindi, penso che certe forme di attivismo diretto, non mediato, bene inteso intendo quelle che però sono nonviolente e rispettano le altre persone, hanno ragione a tirare dritto. Le istituzioni sbagliano proprio nel metodo. Non nel cosa fanno, sbagliano nel come lo fanno. Irrazionale è la burocrazia che ti rallenta in un presente fatto di smartphone e digitale, dove in cinque minuti puoi parlare con gli Stati Uniti e in poche ore prendere un aereo e andare ovunque in Europa. Irrazionale, quindi, non è la ribellione, irrazionale è la burocrazia, i lacci e lacciuoli che affossano l’azione di chi si vuole impegnare immediatamente, qui e ora, per il bene di tutti.

Ma questi gesti di ribellione non sono un po’ un sintomo del disimpegno civico delle nuove generazioni?

Non è vero che i giovani non sono impegnati. Non lasciamoci abbattere da certi ritornelli mediatici e dalle opinioni da bar. Ho appena finito una tre giorni con trentacinque ragazze e ragazzi che durante l’estate andranno in giro per il mondo a fare volontariato. È vero che magari non ce ne sono abbastanza, ma quelli che ci sono valgono per tre rispetto a quelli di una volta.

Prego?

Serve cambiare narrazione, anche questo è incoraggiarli. Se ripetiamo costantemente che non ci sono, alla fine anche loro ci crederanno. Ci sono e se non li percepiamo è perché ci sono in maniera profondamente diversa da quando eravamo giovani noi. Perché, diciamoci la verità, quantitativamente sono magari di meno, ma qualitativamente chi ci sta è molto più impegnato dei giovani di ieri. Se metto davanti ai miei occhi i miei volontari degli anni ‘80 in stazione Centrale a Milano e i miei volontari, che ho incontrato la settimana scorsa, oserei dire che di sostanza se ne vede molta di più in questi ultimi. Perché ai tempi esisteva ancora l’onda lunga dell’impegno degli anni ‘60 e ‘70; chi c’era, spesso, si faceva portare da questa corrente. Oggi i giovani volontari e attivisti vanno invece contro corrente. Hanno determinazione e preparazione. Pretendono di essere formati. Pretendono serietà, risposte puntuali, coerenti.

Sta dicendo che i giovani volontari sono meno inclini al pensiero utopico quindi?

No, non hanno pensieri utopici come i ragazzi che ho incontrato all’inizio di Exodus. Ragionano tanto, ma ragionano sul concreto. Più razionalità che follia mi viene da dire. E anche qui il loro approccio è puramente controcorrente, opponendosi proprio a una politica che parla per slogan, progettando con la pancia.

Cosa direbbe a questi attivisti ribelli che avrebbe voluto sentirsi dire a lei, quando era giovane?

Quando ero giovane, quando avevo l’argento vivo addosso, avrei voluto che mi avessero detto proprio tutto il contrario di ciò che mi hanno poi detto… ma erano altri tempi. La ribellione, soprattutto negli ambiti cattolici, era fuori discussione, era peccato quasi mortale. Mia mamma pensava fossi pazzo insomma, anche paragonandomi a mio fratello, lui ragazzo modello, obbediente. Io sono stato regolarmente sospeso da scuola, regolarmente bocciato non per i risultati, ma proprio per la cattiva condotta. Per esempio, stando al mio lavoro di prete, solo adesso possiamo concepire che Cristo è stato messo a morte in quanto ribelle. Era ribelle allo stato di cose, chiedeva cambiamento sì personale, ma anche sociale. Quando ero giovane io non ci saremmo mai azzardati a dare del ribelle a Cristo, che per tutti era stato messo a morte esclusivamente perché ci doveva salvare e non anche perché dava fastidio.

Ma quindi, ribelli o non, questa generazione di attiviste e attivisti, merita speranza?

Certo che dobbiamo riporre la nostra speranza nei giovani. Ci mancherebbe altro!

don Antonio Mazzi, con ragazzi, educatori, volontari delle realtà Exodus in Italia © ANDREA PAVESI

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