di Violetta Cantori – 18 marzo 2022

L'Accoglienza che non si può improvvisare

 Si attende l'arrivo in Italia di oltre 700.000 profughi dall'Ucraina. Un flusso d'umanità che deve ricevere un aiuto competente, attento e coordinato. VDossier intervista Raffaella Paladini, psicologa, psicoterapeuta ed esperta di Psicologia dell'Emergenza per capire il "come" di un'accoglienza che funziona

“La presenza di una guerra alle nostre porte, con il suo carico di paure e insicurezza, ci coinvolge direttamente. Tante volte siamo stati protagonisti di momenti di accoglienza di profughi che fuggivano da guerre ‘lontane’, il cui ‘rumore’ era un eco di sottofondo. Ora, invece, sentiamo troppo vicini i rumori della guerra e il pericolo del coinvolgimento di un’Europa in seno alla quale ci sentivamo sicuri e protetti. Tutto ciò ci atterrisce, ci disorienta e rischia, dopo la pandemia, di renderci ancora più fragili.”

Queste le parole di Raffaela Paladini, psicologa, psicoterapeuta e presidente di Psicologi per i popoli Emilia-Romagna ODV, associazione che tra le sue attività promuove i valori dell’assistenza psicosociale e della solidarietà umana nelle emergenze, e collabora con la Regione alla gestione dell’emergenza sul territorio. VDossier l’ha intervistata per osservare con una lente d’ingrandimento alcuni aspetti dell’emergenza umanitaria e della nostra risposta di comunità su cui è necessario soffermarsi, nella prospettiva di agire una buona accoglienza.

Fino al 17 marzo sono arrivate in Italia 50.649 persone in fuga dalla guerra in Ucraina. Di queste 25.846 sono donne, 20.478 minori, 4.325 uomini (Fonte Ministero dell’Interno). Le principali città di destinazione dichiarate al momento dell’ingresso sono Milano, Roma, Napoli e Bologna. I numeri sono destinati a salire, perché il conflitto prosegue e perché l’Italia, con 230mila residenti (fonte Eurostat), è il secondo Paese europeo dopo la Polonia per presenza di cittadini ucraini e che possono accogliere i loro connazionali in cerca di asilo. Le autorità stimano l’arrivo di almeno 700mila persone.

Il sistema d’accoglienza è diffuso lungo tutto il Paese e si alimenta con la grande mobilitazione di cittadini, famiglie, volontari, associazioni che collaborano con le istituzioni. Sebbene sia ancora difficile raccontare l’impegno di chi accoglie con l’ausilio dei numeri, le storie che leggiamo quotidianamente sui media offrono istantanee preziose di un coinvolgimento che probabilmente va oltre quello sperimentato con la pandemia, e che necessita di essere approfondito, compreso, accompagnato.

Dottoressa Paladini, cosa accade a chi fugge dalla guerra? “Quando il 24 febbraio gli Ucraini si sono svegliati con i rumori dei bombardamenti, dal punto di vista psicologico sono avvenute la rottura di un ordine prestabilito e sicuro, e l’interruzione di una linea di vita, e in molti di loro l’effetto potrebbe essere una disorganizzazione del normale stato di coscienza. Dal punto di vista sociale la comunità ucraina si è sentita sopraffatta ed è entrata in una crisi di identità di popolo. Eventi cosi devastanti e imprevedibili minano la salute sociale dell’intero popolo: la gente fugge, avvengono divisioni dolorose, perdita delle relazioni, fratture delle diverse comunità, possibili perdite di tradizioni, culture e narrazioni, che possono portare a distruggere la storia di una nazione e disgregare il senso di appartenenza individuale che ci rende sicuri e forti.

Le conseguenze piscologiche possono essere crisi di identità, difficoltà nella gestione delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti, ma anche a conseguenze correlate allo stress, quali ansia, malattie cardiovascolari, depressione, demotivazione, apatia del vivere. La mente e il corpo procedono di pari passo. In questo momento la vita stessa è minacciata, la mente sperimenta un senso di irrealtà e di vulnerabilità e pensieri terrorizzanti.  Quando la salute sociale viene meno si può vivere il dramma della guerra a diversi livelli: personale, fisico, psicologico e sociale.

Il popolo ucraino sta difendendo la propria terra e la sua storia, e questo significa che fortunatamente non c’è la perdita della speranza, almeno a livello di comunità. E chi li deve accogliere mobilita tutte le sue risorse, in una sfida umanitaria tangibile, finalizzata ad alleviare le sofferenze e rafforzare il senso di sicurezza e di benessere della comunità. Questo costituisce una grande risorsa”.

Cosa serve per organizzare una buona accoglienza? Come il Terzo settore può portare un valore aggiunto e quali rischi dovrebbe evitare? Il gran cuore non basta: servono competenze, coordinamento, organizzazione, integrazione nel tessuto sociale, altrimenti il sistema di accoglienza non può reggere. Occorre una cabina di regia che non discrimini tra i diversi profughi e porti a trasformare lo slancio solidale in azioni politiche dell’accoglienza verso tutti. Come già sperimentato in altre occasioni servono volontari organizzati, formati, professionali, capaci di dialogare e collaborare con le istituzioni, e vice versa. Questo è ciò che fa la differenza.

Il Terzo settore è una risorsa preziosa per il nostro Paese e può giocare un ruolo fondamentale nel coordinamento dell’accoglienza e dell’integrazione, aiutando ad individuare le risorse disponibili e rafforzare quelli esistenti, tra cui le proprie. Possiamo contare su un non profit che ha maturato tanta expertise, anche nella gestione delle emergenze. Penso al Mediterraneo, ai terremoti, le alluvioni, la pandemia. In tutte queste occasioni i volontari e le associazioni hanno saputo tessere comprovate reti relazionali e hanno messo campo azioni di sistema davvero efficaci.

Il volontariato ha una presenza capillare su tutto il territorio nazionale e si avvale dalla generosità e professionalità di chi lo agisce, frutto di una formazione sempre più specialistica, accompagnata dall’esperienza diretta, acquisita negli ultimi anni dai volontari. Questo è certamente un valore aggiunto di cui beneficia il sistema d’accoglienza.  I potenziali rischi sono costituiti dall’eccessivo e/o ripetuto coinvolgimento emotivo dei volontari, impegnati ad alta intensità oramai da tre anni (di pandemia) al servizio della comunità. Questo può portare a sviluppare quello che noi psicologi chiamiamo trauma vicario, cioè una eccessiva esposizione agli eventi traumatici anche indiretta, che costituisce una minaccia reale alla salute psicofisica.

C’è poi un altro rischio collettivo, che è la possibilità di congelare o mettere da parte l’attenzione su altre emergenze diffuse. In questo momento c’è senza dubbio un minore risalto mediatico verso altri tipi di emergenza. Penso alla pandemia che ancora si fa sentire e le cui conseguenze emergono di giorno in giorno, o all’accoglienza che nasce nei nostri mari e nei nostri porti ad esempio, ma dobbiamo mantenere alta l’allerta. Ecco perché cittadinanza attiva, volontariato e istituzioni dovranno collaborare insieme sempre di più e sempre meglio.

Accanto alle strutture gestite direttamente dalle Istituzioni come i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), ci sono famiglie che hanno dato la loro disponibilità ad accogliere in casa. Che differenza c’è tra questi due tipi di accoglienza, e che cosa è opportuno sapere quando si accoglie? Tra i due tipi di accoglienza sono sostanzialmente i rapporti interpersonali che vengono a cambiare. Nella struttura si è circondati dalla professionalità e dall’attenzione di personale volontario o specialistico, ma l’ambiente umano, seppure accogliente, non potrà mai essere equiparato ad una vera casa. La sistemazione in famiglia presuppone altri ritmi e altre modalità e va a rinsaldare il senso di appartenenza e interdipendenza; il coinvolgimento affettivo è ancora maggiore in caso di ospitalità presso parenti o amici, dove la riparazione del trauma da lacerazione e separazione può essere di grado più elevato.

La disponibilità spontanea all’accoglienza è preziosa. Ma è importante che le famiglie abbiano un buon grado di consapevolezza. Quando si accoglie bisogna sapere a cosa si deve provvedere e tenere conto dell’unicità di ciascuna persona e ciascuna storia, delle diverse condizioni, delle possibili reazioni e le diverse capacità di ripresa. È necessario per costruire buone relazioni, e per sviluppare empatia. Un’attenzione particolare va rivolta all’accoglienza delle persone di minore età. I bambini ucraini che arrivano hanno legami di attaccamento lacerati, ‘interrotti’, e perciò sono disorientati, terrorizzati. Vengono meno i legami con la famiglia, l’appartenenza ad un gruppo (la rete sociale) e la scuola, che sono fonte di sicurezza psicologica e benessere psicofisico. In più dobbiamo tenere presente che il bambino non ha sviluppato completamente le sue difese psichiche e quindi il trauma ha più probabilità di irrompere con violenza e brutalità e lasciare una traccia profonda.

I bambini che hanno vissuto l’angoscia dell’imprevisto, dell’impotenza, della separazione e della morte hanno bisogno di percepire un senso di protezione e di sicurezza. Hanno bisogno di tempo, per abituarsi a nuovi volti, nuove pietanze, nuovi giochi, una nuova scuola, una nuova lingua e ritmi quotidiani diversi. Hanno bisogno di famiglie che veglino su di loro, li aiutino a recuperare la fiducia attraverso buone relazioni con adulti competenti e affettivi, per riprendere i fili spezzati della loro crescita psicologica. Hanno bisogno di poco clamore intorno, per abbassare il sistema di allerta, tensione e ipervigilanza dovuto al rumore delle bombe, al frastuono della fuga. In risposta al trauma vissuto potrebbero attivare reazioni come una forte irritabilità, intrappolati come sono nel terrore che l’evento possa ripetersi da un momento all’altro, anche qui in Italia. È importante comprendere che si tratta di reazioni, se temporanee, assolutamente normali a eventi improvvisi angoscianti e anormali. Si dovrà prestare attenzione a eventuali sintomi che potranno sviluppare dopo poco tempo dall’arrivo in famiglia: mal di testa, mal di stomaco, episodi di rabbia, aggressività, disinteresse per il gioco, isolamento, disturbi del sonno, dell’alimentazione o del ritmo del sonno.

Dovremmo garantire ai bambini una collocazione il più possibile vicina ad altre famiglie che ospitano fratelli, parenti o persone appartenenti alla stessa comunità, per tenere saldo quanto possibile il filo dei legami con il passato. Dovremmo proteggerli da notizie e immagini legate alla guerra che andrebbero a riprodurre emozioni e pensieri altamente disturbanti e destabilizzanti, evitando domande, curiosità ed esposizione ai mass media.

Ogni bambino ha una sua storia di vita e di sviluppo e una sua capacità di resilienza verso il quale bisogna guidarlo, per dargli la possibilità di sciogliere quel senso dell’orrore nel quale si è congelata la sua quotidianità, ed evitare così che resti bloccata all’attimo dello scoppio della prima bomba, che non permetterebbe di vivere il presente e sognare un futuro diverso e più positivo.

Noi che accogliamo dovremmo cercare di calmare gli animi sconvolti e nutrire le loro speranze.

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