di Caterina Giacometti – 14 marzo 2022

Sabrina Stoppiello. I numeri dicono chi siamo

 Non facili da leggere, ma vitali per dare un senso all’azione. Il ruolo dei Censimenti quando si parla di Terzo Settore. Occasione per orientarsi o rischio mistificazione?

A che cosa serve la statistica? Ho letto una frase tempo fa che mi è piaciuta molto: la statistica permette all’informazione
di diventare conoscenza. Si rilevano una serie di informazioni che, se sono solide e affidabili, permettono di avere una conoscenza più approfondita di un fenomeno che prima non si conosceva. Ovviamente il dato statistico deve essere solido. Le metodologie e le procedure adottate devono essere molto rigorose.

In che modo si costruisce un dato solido e affidabile? L’Istat, a partire già dagli anni 90, in accordo con gli standard internazionali e in particolare europei, ha sviluppato delle vere e proprie linee guida, che raccolgono tutte le indicazioni sulla qualità sia del processo che del prodotto, in modo da garantire che la produzione statistica rispetti i requisiti di qualità fondamentali della rilevanza, tempestività, accuratezza, accessibilità e confrontabilità. Gli indicatori che produci devono infatti essere affidabili e accurati e le informazioni devono essere comparabili in termini di serie storica, di territorio o di fonti diverse. Un’attenzione estrema viene data alle definizioni che adotti, spesso condivise a livello internazionale perché questo ti permette la comparabilità e replicabilità. Anche le classificazioni devono essere il più rigorose possibili. Le linee guida sono molto ben definite e rappresentano lo standard di riferimento per la valutazione della qualità, di processo e di prodotto, dei
processi condotti dall’Istat nonché delle metodologie adottate.

Però l’Istat non è l’unico ente che produce dati statistici. Come facciamo quando leggiamo dei dati a riconoscere se sono affidabili, rilevanti, tempestivi? Ritengo molto importante la trasparenza, nel leggere un dato cerco informazioni su come è stato prodotto. È importante nella valutazione della qualità capire quanto venga trasmesso, il soggetto che produce il dato deve essere in grado di rendere conto di come è stato prodotto. Bisogna chiedersi quali sono le informazioni che dà a supporto: quali e quanti sono i soggetti che ha intervistato, come, quando, quale è stato lo strumento? I dati dovrebbero avere la possibilità di essere confrontati. Inoltre, nella comunicazione la comprensibilità e la chiarezza sono importanti. Allo stesso tempo chi legge e riutilizza i nostri dati dovrebbe avere una competenza almeno di base ed è compito anche dell’Istat sviluppare una conoscenza statistica diffusa.

Una competenza dello strumento statistico, del suo vocabolario e delle sue regole? Certamente. Cos’è un indicatore? Come è costruito? Che cosa rappresenta? Come si è arrivati a definirlo? Qual è la connessione che è stata stabilita tra l’indicatore e il fenomeno che si vuole studiare? Per poter leggere ed interpretare dei dati bisogna avere queste informazioni di base, si tratta di spiegare il processo di operativizzazione.

Al di là dei processi di costruzione tecnica del dato, esiste il tema della soggettività del dato statistico. La sensibilità del ricercatore è sempre in gioco. Noi l’abbiamo visto con il questionario del prossimo censimento (Censimento permanente sulle istituzioni non profit, ndr). La scelta dei temi e dei quesiti è stata oggetto di un ampio dibattito fra i massimi esperti del settore che sono stati coinvolti da Istat e che hanno riflettuto insieme su quali potessero essere le dimensioni da indagare e come indagarle. La soggettività rimane sempre, però le riflessioni condivise a vari livelli permettono di acquisire le diverse sensibilità. E poi si cerca di fare sintesi e di tradurre in quesito l’esigenza informativa raccolta. Le posizioni degli esperti ovviamente sono fra loro diverse, ognuno ha un’esperienza, un orientamento e un percorso differente e mettere insieme le varie anime è complesso. Lo stesso vale per la comunicazione.

Penso che sia corretto diffondere un dato scevro da interpretazioni, però è anche vero che questo implica il rischio di dare spazio a diverse interpretazioni, a volte anche distorte o fuorvianti. Noi come ricercatori Istat abbiamo il dovere di fornire il dato in maniera corretta e trasparente; cerchiamo sempre di restituirne una lettura attendibile e solida dal punto di vista scientifico, ma non possiamo evitare interpretazioni soggettive da parte di soggetti “poco attenti”. Quello che possiamo fare è dare indicazioni precise sulla corretta lettura e analisi dei dati che diffondiamo.

Rispetto al compito di Istat di educare i non esperti a leggere le statistiche, mi sembra fondamentale. Nei comunicati stampa dei report diffusi da Istat c’è sempre una nota metodologica, che però leggono solo gli utenti esperti, in quanto spesso molto complessa, prodotta con un linguaggio molto tecnico ad esempio sulla costruzione del campione, la rappresentatività della stima, l’errore, le ponderazioni. Lavorare sulle informazioni basilari che un utente dovrebbe assolutamente avere per leggere i dati sarebbe importante. Ci vorrebbe un lavoro di semplificazione, che l’Istat ha avviato
da qualche anno.

Rispetto alla confrontabilità dei dati e alla condivisione di classificazioni e definizioni internazionali, si rischia di rendere omogenei fenomeni sociali che non sono sempre uguali, limitando il racconto della loro complessità e diversità? Si adottano delle definizioni internazionali certo, ma il dato lo si rileva sul territorio e questo dovrebbe riuscire a dare la complessità di quel contesto. È vero però che è un compromesso: si ha la possibilità di comparare dati, però magari si perde in complessità. Bisognerebbe essere in grado di integrare le informazioni con delle nuove informazioni. A volte non si tratta neanche di indagini statistiche, ma di indagini qualitative

Quanto vengono fatti dialogare i due strumenti? Nel caso di indagini che prevedono delle rilevazioni ampie, lo si fa a volte nella fase di predisposizione dei contenuti informativi per capire tutte le sfumature del concetto. Poi si generalizza, si definisce quello che potrebbe diventare operativo e quindi un indicatore. In altri casi è il contrario: si può fare un’indagine quantitativa, poi si va nel dettaglio per capire meglio fenomeni che non sono leggibili a livello complessivo, ma che sono interessanti proprio per la loro peculiarità.

Per quanto riguarda il non profit e il volontariato, quando è nato l’interesse di Istat per questo settore? La sensibilità dell’Istituto si sviluppa e cresce soprattutto in conseguenza della legislazione che nasceva. Erano gli anni 90, cominciavano ad essere più solidi gli studi sull’associazionismo e sul Terzo settore e dal punto di vista normativo vengono promulgate le leggi sul volontariato e sulle cooperative sociali. Nello stesso tempo vengono elaborati i sistemi di contabilità nazionali e internazionali e tra i settori economici così definiti ritrovi anche le istituzioni a servizio delle famiglie, che costituiscono una parte delle istituzioni non profit. Nel 2000 l’Istat conduce la prima rilevazione censuaria sul settore, sulla scia anche di un progetto internazionale avviato dalla John Hopkins University che aveva come obiettivo quello di indagare il settore nella sua complessità. C’era una concomitanza di tutti questi eventi.

Quindi c’è una sorta di permeabilità tra il lavoro dell’Istat e quello del legislatore? Sì, credo ci sia un’influenza reciproca. Da un intervento normativo puoi enucleare un aspetto e nello stesso tempo l’intervento normativo spesso si basa su dati statistici. Il percorso che ha fatto la riforma del Terzo settore è emblematico: quantificare il settore non profit ha permesso di riconoscerne il ruolo. Avere dei dati di tipo censuario dà la possibilità di avere informazioni su tutto un settore e non su una singola componente e ha aiutato il legislatore a mettere a punto una riforma che tenesse conto dei vari aspetti, dando la possibilità al Terzo settore di diventare un interlocutore dei decisori politici.

Sappiamo che in primavera lancerete il nuovo Censimento permanente delle istituzioni non profit, cosa vi aspettate di trovare? Prima di tutto speriamo di trovare tante istituzioni non profit ancora attive! (ride, ndr). Ci sono tanti aspetti da considerare, abbiamo messo tanta carne al fuoco, tanti quesiti anche nuovi. Oltre a quelli relativi agli effetti dell’emergenza sanitaria, c’è una nuova sezione sull’innovazione sociale e sulla digitalizzazione, alcuni quesiti sul ruolo del settore nello sviluppo sostenibile e le reti di relazioni create. Ci aspettiamo quantomeno di avere un quadro un po’ più completo, di rilevare informazioni che ci permettano di cogliere ancora di più le caratteristiche del settore. Sconteremo e renderemo conto degli effetti della pandemia. Purtroppo, non siamo riusciti a fare una rilevazione ad hoc durante il periodo dell’emergenza sanitaria, per cui adesso ne raccoglieremo gli esiti. Vedremo se è come le istituzioni non profit sono cambiate, se hanno dovuto sospendere le proprie attività, quante le hanno rimodulate e in che modo. Siamo curiosi.

Il settore del non profit in Istat sta all’interno dell’area delle statistiche economiche. In quali aspetti sono diversi e come possono essere utilizzati nella lettura statistica del non profit l’approccio economico e l’approccio sociologico? Il primo punta lo sguardo sul ruolo economico del settore, sul suo peso, la componente degli impiegati, delle risorse. Dal punto vista sociologico, si ha una maggiore attenzione al ruolo nei contesti, all’aspetto più qualitativo legato al tipo di attività, alle finalità, ai destinatari che si raggiungono, all’orientamento al disagio, ma anche alla componente volontaria, alle relazioni che si instaurano sul territorio, in generale a tutti gli aspetti legati al ruolo che il settore ha per il benessere degli individui e della collettività. Tutti temi che sono frutto delle nostre sollecitazioni sociologiche. Il non profit è il settore per eccellenza nel quale si può conciliare la visione economicista della società con una visione più sociologica. Il gruppo con cui lavoro è formato quasi tutto da sociologi e siamo riusciti a proporre una visione che fosse meno “arida”, che riuscisse a dare una visione sicuramente più articolata del settore.

A parte Istat, esistono altre fonti di dati accessibili e importanti su cui lavorare? Dati statistici sul settore nel suo complesso non credo. Esistono dei dati amministrativi, che noi utilizziamo per costruire il registro statistico. C’è registro del Coni e ci sono i registri regionali. Una fonte importante è l’Inps, che ci dà informazioni sia sulle istituzioni in quanto tali, sia rispetto alle risorse umane che impiegano. Il Runts (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, istituito dalla legge delega 106/2016 e in vigore dal 23/11./2021, ndr) probabilmente sarà una fonte di dati interessante.

Quali sono gli indicatori più importanti per raccontare il mondo del volontariato? Il settore non profit italiano è veramente molto eterogeneo, non possiamo considerare un indicatore unico, bisogna leggerlo in funzione delle sue componenti. Per l’associazionismo l’indicatore potrebbe essere i soci che coinvolge, come coinvolge i volontari, quali sono i destinatari dei servizi e quali le attività a loro dedicate. Per le cooperative sociali potrebbe essere quello della dimensione economica: quali sono le attività economiche che svolge? Qual è il rapporto con la Pubblica Amministrazione? Non si può prescindere dalle caratteristiche dell’istituzione, dal settore di attività, dalla forma giuridica e dal tipo di organizzazione. Esistono proprio sottoinsiemi diversi che rispondono a logiche diverse, che hanno finalità diverse, che coinvolgono soggetti diversi e che si muovono sul territorio in modo diverso.

Ci sono componenti che la statistica riesce a raccontare meglio e altre invece che riesce meno a descrivere? Se parliamo dei dati rilevati in ambito di censimento, riesci con un unico questionario a recuperare le stesse informazioni per tutti. É quello che facciamo annualmente con il Censimento permanente delle istituzioni non profit. Poi accade che come ricercatori non riusciamo neanche a restituire completamente la complessità di questi dati, perché le analisi e gli approfondimenti che si potrebbero fare sono davvero tantissimi, e molto spesso non riusciamo in quanto presi dalle attività lavorative istituzionali ordinarie. Potenzialmente i dati sono tanti e possono descrivere pezzi di mondo, secondo chiavi di lettura diverse e tutte estremamente interessanti, ma di solito ci si limita a presentare solo l’analisi delle caratteristiche
principali.

Tornando alle componenti del settore non profit, la componente un po’ più informale, di partecipazione dal basso, è
possibile raccontarla statisticamente?
Una parte la perdiamo perché è talmente poco formalizzata che non si riesce a rilevarla attraverso gli strumenti della statistica ufficiale. Magari in quel caso converrebbe puntare su una rilevazione che coinvolga gli individui e non le istituzioni. A questo proposito, è da considerare che civismo e volontariato rientrano nell’indagine multiscopo sulle famiglie, dove però si chiedono moltissime altre cose, quindi non si riesce ad approfondire il singolo aspetto. È anche un problema di risorse, di tempi.

C’è la sensazione che la società vada più veloce della possibilità degli indicatori statistici di osservarla? Sì, di certo. Siamo sempre di corsa, soprattutto perché i tempi di organizzazione di una rilevazione, e quindi di produzione di un dato, sono abbastanza lunghi. Quando lo strumento è pronto, qualcosa nella realtà sociale è già cambiato. A volte si fornisce
una fotografia retrodatata, ma è pur sempre una fotografia e rivela aspetti interessanti dei fenomeni sociali sotto una lente di ingrandimento. Certo, bisogna fare attenzione a contestualizzarli rispetto al momento in cui si leggono, per verificarne l’attualità, ma sono informazioni preziose.

Immagine di Teo Romera/Flickr

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