di Marco Schiaffino – 14 marzo 2022

Focus on. Digitale

 Strumento fondamentale per associazioni e volontari o trappola in grado di anestetizzare l’impegno in una dimensione esclusivamente virtuale? Internet, in tutte le sue declinazioni tra social media e blog, rappresenta una sorta di “campo minato” per tutti gli attivisti. Il rischio è quello di scivolare nello slacktivism, quella forma di “attivismo per fannulloni” che trasforma l’impegno in un semplice atteggiamento di facciata

TUTTA COLPA DI INTERNET? Spoiler: da nerd della prima ora e attivista, ho imparato presto a evitare lo slacktivism. Ma io sono un caso a parte. Per fortuna (possiamo dire per caso) ho avuto la possibilità di seguire da molto vicino la crescita di Internet e i suoi cambiamenti. Il pericolo slacktivism mi è subito saltato agli occhi. Erano i tempi (i primi anni 2000) in cui noi impallinati di Internet dovevamo sorbirci le critiche di chi ci accusava puntualmente di aspirare a “vivere in un mondo virtuale” e “sganciato dalla realtà”. Sorpresa: a furia di bombardarci in questa maniera, abbiamo sviluppato una discreta carica di anticorpi nei confronti di un’eventuale perdita del senso di realtà. Esattamente quello che non hanno fatto gli altri 6.999.000.000 abitanti del pianeta terra quando gli è stato messo in mano uno smartphone. Peggio ancora, quando è comparso Facebook.

SLACKTIVISM: QUANDO LA SCORCIATOIA TI SI RITORCE CONTRO. Da un punto di vista personale, identificare uno slacktivist è piuttosto semplice. Attenzione, però: il problema non è solo quantitativo. Se dovessimo preoccuparci di chi limita il suo “attivismo” a qualche like su Facebook o alla firma di una petizione online quando gli capita sotto il naso, non
sarebbe una tragedia. Per chi lavora o presta la sua opera nel sociale, il discorso è più complesso. Il rischio, infatti, è quello di favorire o alimentare lo slacktivism. In altre parole, nel momento stesso in cui scegliamo le modalità con cui promuovere una campagna o una causa, dobbiamo tenere presente il rischio di essere noi stessi ad alimentare il fenomeno dello slacktivism. Insomma: il problema dei “veri attivisti” non è tanto quello di diventare slacktivist, quanto quello di favorire una deriva verso l’attivismo fannullone nelle persone a cui ci rivolgiamo.

LA TENTAZIONE DI PUNTARE AL RISULTATO. Primo problema: trasferire il baricentro dell’attivismo su social e web consente di rendere il processo misurabile. È qualcosa che utilizzando strumenti tradizionali è molto più difficile e si limita, a ben vedere, ai casi in cui l’attivismo ha una ricaduta che può essere contabilizzata, come nel caso delle raccolte di firme. La trappola è rappresentata dal fatto che i numeri, di per sé, sono gratificanti. Abbiamo avuto un milione di visualizzazioni dell’articolo? Fantastico! Ci sono 500mila persone che hanno condiviso il nostro appello? Meraviglioso. Ma cosa c’è davvero dietro a questi numeri? Primo aspetto: i social sono costruiti per gratificare chi vi partecipa. Se ne occupano gli algoritmi e, al di là di quanto accade con le inserzioni a pagamento (in cui il nesso causale è più intuitivo) il meccanismo che punta a “premiare” la creazione di contenuti con un maggior numero di visualizzazioni è alla base del sistema. In altre parole, siccome Facebook e soci hanno bisogno di persone che immettono contenuti nella piattaforma, il fatto che ci siano maggiori visualizzazioni e like non è necessariamente un indizio del fatto che stiamo facendo un buon lavoro. È più che altro il contentino che Zuckerberg ci tributa per fornire materiale a una macchina che ne ha bisogno.

QUALE RISULTATO? Secondo problema: siamo sicuri che quello che stiamo facendo abbia una ricaduta pratica? Un esempio. Quando avviamo una raccolta di firme o un referendum, lo strumento che abbiamo scelto permette davvero di cambiare qualcosa? La risposta è no. Torno sul personale per chiarire il ragionamento. Chi scrive si è impegnato (tanto) sul referendum del 2011 (sono passati 11 anni) sull’acqua pubblica. Risultato formale di qualche anno di impegno: 27 milioni di firme per impedire la privatizzazione delle risorse idriche. Risultato pratico: zero. Il contesto politico ed economico era tale per cui la “scelta” di chi ha votato il referendum è stata sostanzialmente anestetizzata e, proprio in queste settimane, la privatizzazione dell’acqua è tornata di attualità. Percorso simile per l’opposizione al Ttip (il trattato di libero scambio tra Usa e Ue) che ha raccolto nel 2017 la bellezza di tre milioni di firme sulla piattaforma Ice (Iniziativa dei Cittadini Europei) della Commissione Ue. Nonostante i numeri (il triplo del quorum) la consultazione è stata considerata “non vincolante” e sostanzialmente ignorata.

QUALE COINVOLGIMENTO? Terzo problema: abbiamo davvero comunicato qualcosa? Secondo recenti ricerche, la soglia di attenzione dell’utente medio su Internet è di appena otto secondi. Tradotto in termini pratici, possiamo dire che la maggior parte delle persone, quando si ritrova davanti a un articolo online, legge solo il titolo. Accade lo stesso con appelli
e petizioni. La tara che dobbiamo mettere ogni volta che usiamo Internet come strumento di diffusione di campagne e attivismo è che i risultati che incassiamo siano drogati dalla superficialità di chi legge. Nel 90% dei casi, non siamo riusciti a comunicare la complessità del nostro messaggio e abbiamo incassato, in buona sostanza, un tributo di “simpatia” che non ha conseguenze apprezzabili sul piano reale. Insomma: tutto ciò che ci resta è la semplice illusione di avere smosso l’opinione pubblica, quando in realtà abbiamo solo registrato un apprezzamento che non avrà grandi conseguenze. Soprattutto, quello che non otterremo mai tramite Internet è il coinvolgimento a livello personale. In altri termini, utilizzando solo il web non potremo creare mai una “comunità” (vera, non virtuale) che faccia crescere ed evolvere la campagna. Insomma: Internet è utile, ma è uno strumento limitato. Ricordiamocene.

Immagine di Jason Tester/Flickr

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