di Francesco Bizzini – 14 marzo 2022

Donatella Della Porta. Dentro i Moventi

 Si mescolano diffi cilmente con i volontariati, ma quando succede ne guadagnano entrambi. Diff erenze, diffi denze e opportunità in un matrimonio che s’ha da fare

“Se parliamo di movimenti, non parlerei di un’età d’oro. Soprattutto bisognerebbe defi nire di quale contesto geografi co parliamo. Diverse parti del mondo hanno sviluppato diverse cronologie ed è capitato che movimenti che hanno prodotto ondate globali non fossero sincronizzati ovunque. Prendiamo il movimento operaio: colleghi studiosi di quel fenomeno hanno sostenuto che lo abbiamo per anni dipinto come in declino perché ci focalizzavamo esclusivamente sulla sua incarnazione europea, ignorando il Sud del mondo con i suoi movimenti consistenti e importanti per processi che andavano oltre il lavoro.”

Esiste però una specifi cità italiana quando parliamo di movimenti sociali?
Gli studi sulla partecipazione politica (per esempio, di Ilvo Diamanti) hanno indicato che soprattutto negli anni 90, mentre
scendeva la partecipazione di cittadini tramite forme convenzionali, come l’iscrizione ai partiti e al votare, si registrò una crescente partecipazione nelle forme non convenzionali di protesta, dall’azione diretta, come occupazioni e blocchi stradali, alla raccolta fi rme, alla nascente partecipazione online. Ed è cresciuto anche il volontariato. Man mano che declinava la capacità di presenza nella società dei partiti politici, fungeva da eff etto quasi compensatorio. In più da noi abbiamo avuto un’accelerazione di questo processo per l’inchiesta Mani Pulite che ha causato un allontanamento dalla politica partitica e un avvicinamento delle nuove generazioni al volontariato e ai movimenti.

Un processo che porta a un oggi dove le tracce di queste due realtà si avvicinano sempre più, quasi a perdersi.
La mia impressione è che di recente ci sia stato addirittura un ridursi dei confini tra diversi tipi di attivismo. Pensiamo all’attività in solidarietà con i migranti o attività durante la pandemia: molto spesso il confi ne tra un intervento di volontariato e un intervento di advocacy, cioè di sostegno, e denuncia è labile. La differenza si è ridotta perché le organizzazioni di movimento sociale sempre più intervengono attraverso azioni di solidarietà concreta e le organizzazioni
di volontariato partecipano ad azioni di protesta.

Il volontariato che noi chiamiamo “classico” fa fatica spesso a riconoscersi all’interno dei movimenti. È poi così semplice questa convivenza su tematiche di certo comuni, ma aff rontate con strategie così diverse?
Semplice non è. Lo abbiamo visto anche in altri momenti, quando il volontariato ha agito nell’arena dei movimenti, pensiamo a quello per una giustizia globale, il Social Forum europeo, di cui facevano parte anche organizzazioni
di volontariato ben strutturate. In quelle situazioni, vi erano, ad esempio, concezioni di democrazia diverse, anche se non in antitesi. Si trovava spesso consenso deliberativo. Ciò che era “democratico” per il volontariato, non era la stessa concezione di democrazia dei centri sociali autogestiti, che però erano molto attivi con azioni di volontariato. Spesso le stesse realtà di volontariato, davanti a casi diffi cili da aff rontare all’interno delle regole strutturate, magari si rivolgevano ai movimenti che avevano meno vincoli da questo punto di vista.

Quindi l’avvicinamento, il collante tra queste realtà sta nel rispondere a una crisi politica o sociale?
È successo con quello che chiamiamo backlash, l’attacco al volontariato che è avvenuto in termini sia di riduzione dei fi nanziamenti, che di stigmatizzazione della loro azione, operata dai governi giallo-verdi. Un processo, badate bene, non solo italiano. Questo ha portato nelle organizzazioni di volontariato la consapevolezza dell’importanza di intraprendere forme di protesta o di partecipazione meno strutturata, più vicina al campo dei movimenti. Per esempio a Firenze un incontro con i rappresentanti di Medici Senza Frontiere ha confermato che la partecipazione di giovani attraverso la spinta dei movimenti era percepita come una dinamica positiva, che poteva portare a compensare il numero di volontarie e volontari che si era
ridotto in questi anni.

Quindi il volontariato e le realtà più strutturate possono far bene ai movimenti, non rischiano di zavorrarli o snaturarli?
Questo si era visto anche nel movimento per una giustizia globale; abbiamo parlato nelle nostre ricerche di una sorta di
appropriazione organizzativa. C’è un’ondata di protesta, la protesta di per sé tende a durare poco, qualche mese o qualche anno e spesso, non tutti, ma molti attivisti dei movimenti tendono a entrare nelle organizzazioni più strutturate. Dall’altra parte, lato movimenti, avere a che fare con gruppi strutturati porta consapevolezza su alcuni limiti delle strutture orizzontali o frustrazione rispetto al fatto che la democrazia interna non è spesso partecipata come si vorrebbe.

Ma cosa si porta a casa, allora, il volontariato al fi anco di realtà fluide e per natura spesso effi mere come i movimenti?
Notiamo spesso che sono le crisi a creare occasione di incontro: crisi rifugiati, crisi economica, crisi pandemica, crisi ecologica.
Gli attivisti di movimenti sociali e volontariato che hanno in comune gli stessi valori spesso si trovano a condividere le debolezze, trasformandole in forza, incontrandosi su azioni concrete. Anche nei Social forum successe questo: l’unirsi, tra soggetti diversi, è all’inizio mosso dalla consapevolezza della forza dell’avversario comune. Trainato dai movimenti, queste dinamiche coinvolgono anche il volontariato. Nelle fasi, invece, di rifl usso, di minore protesta in piazza, il volontariato tende a recuperare energie, nuove generazioni di attivisti.
Quindi sì, le tensioni tra questi due poli esistono, ma esiste anche una fl uidità tra i partecipanti e un incontro in azione durante campagne che può portare a forme di collaborazione con reciproco vantaggio. In generale, le organizzazioni di movimento sociale non durano tanto nel tempo, con quel nome e con la stessa struttura organizzativa. Spesso l’obiettivo principale non è quello di sopravvivere con una sigla. Il radicamento delle realtà della società civile che compongono movimenti come Non Una Di Meno potrebbe garantire di fatto una maggiore resilienza anche nei momenti di bassa mobilitazione.

E nel nostro discorso, come e dove si colloca la rivoluzione apportata dai nuovi media sociali? Può iniziare e finire tutto sul fi lo dello smartphone?
I movimenti e il volontariato hanno bisogno di utilizzare tutti i mezzi di comunicazione possibili. Già le ricerche sulle prime forme di comunicazione, come la stampa per il movimento operaio dell‘800, o la posta, dimostrano come questi strumenti siano stati importanti per l’evoluzione della partecipazione dei cittadini. I nuovi media, quelli degli albori, come le Bbs, le
mailing list, Indymedia, i primi siti web, hanno permesso ai movimenti e al volontariato di emanciparsi dai fi ltri dei mass media. Con le nuove piattaforme sociali si è raff orzata la capacità di partecipare anche del cittadino comune in prima
persona. Nel web 1.0, infatti, si doveva sempre passare da un webmaster.
Con i social le principali trasformazioni sono date dal fatto che si partecipa in prima persona e, cosa molto importante di questo, è che lo si fa passando spesso dal testo scritto all’immagine postata. Quello che sicuramente abbiamo osservato in tante forme di protesta è però che i social media da soli non sono suffi cienti, né a sostituire forme di protesta di piazza, né in termini di capacità di attirare l’attenzione pubblica. La protesta tramite geolocalizzazione ha senso se coordinata con
altre forme, ma da sola non ha l’eff etto di un corteo che irrompe all’interno di una città. Poi c’è il limite del digital divide, che crea una selettività tra chi sa o no utilizzare mezzi ad alta tecnologia.

Il digitale può quindi creare pigrizia anche nell’attivazione?
Lo slacktivism e il membership card activism sono fenomeni che hanno il loro peso: il tesserarsi, dare un contributo,
partecipare a una petizione online può aiutare e sentirsi più a posto con la propria coscienza. Questo c’è. Però mi sembra ancora più importante che attraverso i social media l’empatia, il tipo di conoscenza più approfondita, lo sviluppo di identifi cazione negli altri è più diffi cile.
Nel 2011 lo abbiamo visto, sia con le piazze degli indignados, sia con le primavere arabe. Lì si parlava di twitting revolution, Facebook movements. Ma è avvenuto il contrario rispetto a quanto evocato da queste etichette. Al Cairo gli attivisti avevano capito che facendo solo propaganda via Facebook non riuscivano a toccare le persone e per questo avevano cambiato strategia: erano andati fi sicamente nelle periferie e da quelle avevano portato le persone in piazza Tahrir. Il contrario di affi darsi ai social media. Questa è una lezione che abbiamo capito nei lockdown, nelle fasi nelle quali i social media e le piattaforme digitali, anche nell’insegnamento, si usavano massivamente. Ne abbiamo apprezzato alcune
capacità, però allo stesso tempo percepivamo che non era la stessa cosa.

Un altro aspetto che spesso ha contraddistinto i movimenti, purtroppo, è l’uso della forza, soprattutto in dinamiche
di piazza. Lasciando da parte la violenza, divisiva, tra strategie radicali e moderate, qual è quella che allunga la vita dei movimenti?

Quello che abbiamo visto nelle ricerche su diversi movimenti è che le strategie impiegate sono spesso molteplici. Il movimento non è un’organizzazione strutturata, ma ha in sé diverse realtà. Solo per citare il movimento ambientalista, ci troviamo dentro Extinction Rebellion, i Fridays For Future, ma anche Italia Nostra… tante forme che spesso portano con sé visioni diverse sulle soluzioni possibili, seguendo strategie diverse. Sono reti molto ampie. Per esempio stiamo seguendo e
studiando “La società della cura”, una rete di diverse organizzazioni, comprese realtà che fanno advocacy e azioni di
volontariato sulle tematiche dei brevetti dei vaccini, ma anche sulla concezione della sanità pubblica.
Parliamo di centinaia di realtà diverse, magari un paio grosse e strutturate, ma altre anche molto locali, di quartiere. È raro
che un movimento si concentri quindi solo su una forma d’azione. Per esempio se si seguono alcuni confl itti sui temi
ambientali, contro la costruzione di alcuni impianti, si vede che alcune organizzazioni ambientaliste hanno più pratica nell’utilizzare anche contatti politici e con i mass media, agire tramite la legge, attraverso denunce. Però manca loro
quel radicamento nella società civile che invece viene dai comitati e dal volontariato.
Di solito è la convergenza di diverse tattiche ad essere effi cace. Questo però all’interno di un ventaglio di strategie considerate legittime da tutti i gruppi partecipanti.

Lei ha ribadito nei suoi libri come spesso le proteste di piazza, come i “controvertici”, possono avere contribuito ai momenti di incontro, scambio, confronto, quali erano i social forum. Per fenomeni così di massa e di piazza sono proprio così importanti spazi di rifl essione comune?
Sia nei social forum, sia nelle proteste contro l’austerità, l’idea di ricostruire una polis, un’arena di dibattito tra diversi, era molto forte. Nei primi erano più associazioni che si incontravano, i movimenti contro l’austerità aggregavano maggiormente semplici cittadini.
Però questa creazione di spazio comune è importante in entrambi. Spesso questi incontri si generano nelle azioni concrete, nell’intervenire in difesa dei migranti, dei rifugiati, o azioni di solidarietà durante la pandemia o sui temi ambientali. Non dico
che è facile, ma avere spazi di incontro è importantissimo ed è vitale che siano luoghi che permettano di capirsi, nelle proprie diversità, e che permettano anche di fare poi delle cose insieme che è il momento della trasformazione reciproca, dove si crea questo tipo di solidarietà. C’è il rischio della divisione, certo. Un pericolo individuato da noi studiosi e dagli stessi attivisti è che magari la ricerca del consenso possa ridurre la capacità di prendere una posizione su temi importanti o che il parlare tolga energie al fare. La costruzione di spazi di incontro fisico, non solo online, è comunque importante e tutti hanno cercato di organizzarli. Certo, movimenti come Fridays For Future hanno avuto momenti di mobilitazione molto visibili,
ma poi una struttura molto lasca. Se lo sono potuti permettere perché, essendo soprattutto giovanissimi, si trovavano già a scuola per discutere.

È un rischio per i movimenti avere un leader carismatico, come Greta Thunberg?
La ricetta giusta non esiste, anche i movimenti spesso hanno basi teoriche e tradizioni diff erenti. Non Una Di Meno è radicato nelle rifl essioni del movimento femminista, con un orientamento a una struttura reticolare e rifi uto della leadership. I Fridays For Future comunque non hanno un leader tradizionale, come quello dei sindacati o dei partiti di
una volta, che controllava l’organizzazione.
Hanno una leader con forte presenza massmediatica che può corrispondere, almeno temporaneamente, ai bisogni di visibilità di un movimento che si è costruito molto basandosi sui media e sui social media. Mentre in Non Una Di Meno c’è molta più presenza di collettivi radicati e territoriali, Fridays For Future è più un movimento mediatico e la loro leader ha quasi un ruolo da infl uencer.

Quindi alla fi ne non si può usare una sola etichetta per categorizzare questi due movimenti?
Non Una Di Meno è un movimento più omogeneo riguardo a posizioni teoriche e visioni del mondo, Fridays For Future, anche rivolgendosi a persone molto più giovani, tendono a mobilitare sulla base di slogan più semplici e meno radicati in un discorso complessivo. Non Una Di Meno tende a off rire visioni complessive, i Fridays For Future hanno detto più volte che non spetta a loro dare risposte e, ove presenti, sono molto eterogenee tra gli attivisti e molto semplifi cate nell’appello generale.

Per concludere esistono degli orizzonti poco esposti mediaticamente e che andrebbero tenuti d’occhio oggi quando si parla di movimenti?
Di certo in America latina stanno succedendo molte cose interessanti. In Cile, nel 2019 ci fu un grosso movimento partecipato dai giovani nato da una protesta su di una cosa semplice come il costo del trasporto pubblico.
Però questo ha portato, grazie anche ad una mobilitazione studentesca molto attiva, a un movimento più ampio che ha trasformato il Paese nonostante la pandemia: hanno abrogato la Costituzione di Pinochet, hanno creato un percorso partecipato dal basso per la costruzione di una nuova. Ciò che succede là è interessante perché si è spesso pensato che
tutte le innovazioni venissero dall’Ovest o dal Nord e andassero verso il Sud, invece questo è uno dei momenti nel quale noi abbiamo da imparare molto.

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