di Violetta Cantori – 19 ottobre 2021

Giovanna Cosenza. Le parole per dirlo

 Contro gli stereotipi: elogio della normalità. Tratto da VDossier n.1 - settembre 2021.

Giovanna Cosenza è professoressa ordinaria di Filosofia e Teoria dei linguaggi. Insegna Storytelling, Semiotica dei nuovi media, Semiotica dei consumi. Si occupa da vent’anni di media digitali, e dal 2007 di comunicazione politica, pubblicità e comunicazione commerciale. Giovanna Cosenza è una volontaria. Con lei abbiamo scelto di fare una esplorazione della comunicazione intorno al volontariato per portare in emersione alcuni aspetti culturali del discorso che spesso rimangono adagiati sul fondo. Osservarli, senza pregiudizi e resistenze, può stimolare idee nuove e una rigenerazione del modo di comunicare il volontariato e comunicarsi come volontari.

Quando si parla di volontariato o quando il volontariato parla di sé, ravvede una struttura narrativa comune?
Sì, più o meno si dicono sempre le stesse cose, e sono tutte nella direzione dell’aiuto, il supporto e il sacrificio. Si dice poco quello che torna a un volontario o una volontaria, cioè l’appagamento e una soddisfazione che io conosco molto bene, perché ho fatto volontariato e continuo a farne. Mi sembra una comunicazione unidirezionale, tutta spostata su ciò che il volontario fa per il beneficiario, che non lascia spazio al racconto di ciò che torna indietro a chi fa volontariato.
La narrazione pubblica del volontariato – penso alla comunicazione di molte ong e associazioni – è permeata da un’atmosfera che allude al fatto che chi fa interventi di questo tipo sia un eroe o un’eroina. È come se per fare volontariato ci volessero delle qualità speciali, perché evidentemente le difficoltà sono molte. Si racconta una storia con tanti ostacoli e tanti nemici da affrontare, quali fatica stress durezza e tanto altro ancora. Per affrontarli bisogna essere speciali. Credo sia questo il messaggio che arriva a chi non ha mai fatto volontariato.
Non è che questi ingredienti narrativi non debbano esserci in assoluto. Le difficoltà esistono, sono reali, specialmente quando si fa un certo tipo di volontariato in cui si va incontro a delle durezze e ci si fa carico di particolari difficoltà. Però manca il pezzo importantissimo di cosa accade al soggetto che aiuta. Lui o lei supera difficoltà e ostacoli grazie al fatto che è felice di farlo. E non occorrono qualità così speciali. Lo può fare chiunque. I volontari sono persone normali che colgono questo aspetto che non viene comunicato. E lo schema descritto non ricorre nelle storie individuali, perché se una persona vicina ti racconta la propria esperienza, lì vengono fuori gli aspetti di appagamento, gioia e soddisfazione che restituisce l’agire volontario.

Dunque nell’immaginario comune il volontario e la volontaria incarnano spesso degli stereotipi…
Lo stereotipo è un concetto, un’idea, un’astrazione su un’attività, un’esperienza, un gruppo sociale che si ripete in modo rigido.  Quindi la ripetizione rigida di comunicazioni sociali molto simili a loro stesse, dove i volontari sono rappresentati come persone dalle qualità speciali produce questo stereotipo. Nell’identificare questa narrazione penso a comunicazioni sociali che includono tutte le forme di volontariato, tra cui ci sono anche quelle più innovative. E anche tutti i destinatari possibili, perché si fa volontariato per destinatari diversi. Ci si occupa di destinatari diversi – adolescenti, migranti, anziani, animali, eccetera – però la storia è sempre un po’ la stessa. Ci sono soggetti eroici che si mettono in moto per andare ad aiutare altri soggetti di diversa estrazione, etnia, età, provenienza che hanno difficoltà di qualche tipo.
Si sottolinea molto l’aspetto del sacrificio e del dovere, in modo implicito. Perché è chiaro che si rappresentano anche i volontari e le volontarie e i loro beneficiari sorridenti e felici. Però è sempre una visione paradossale. Volontario include la parola volere: ma è come se ci fosse un’accentuazione degli aspetti di dovere. C’è un’etica secondo cui ti senti in dovere di fare questa cosa. E sembra che solo pochi soggetti possano essere così altruisti, così eticamente di un livello superiore da poter scegliere di fare volontariato. Questo è il messaggio che passa e probabilmente arriva all’immaginario comune. E non fa capire che basta essere una persona comune a cui scatta quel click. È il momento di gioia vera che sfugge.

L’immagine stereotipata del volontario è solo narrata o è una identità che il volontario si sente addosso e che perciò egli stesso alimenta?
Ognuno è diverso. Io come volontaria e i volontari che ho conosciuto non si sentono eroi. Se fare volontariato è una scelta determinata dal volere e non dal dovere, lo faccio quando mi sento in grado di farlo, quando posso e voglio impegnarmi. Non si tratta di un’attività a tempo perso da scegliere quando non si ha niente da fare. Richiede impegno, rispetto di alcune regole. Ci sono orari, attività organizzate. E questo comporta anche una riorganizzazione del proprio tempo. È dunque una scelta consapevole.
Quando fai volontariato spesso torni a casa felice. Torni felice quando hai risolto un problema. Non sempre accade. Altre volte torni a casa preoccupata perché magari la persona con cui ti sei relazionata era davvero ringhiosa e depressa e non sei riuscita a fare qualcosa per lei. Le giornate del resto non sono tutte uguali. Fare volontariato è anche un modo per imparare a ridimensionare alcune cose, tanti piccoli problemi più o meno reali che abbiamo nella nostra vita. Personalmente posso dire che mi sento più leggera e soddisfatta, non più pesante o dotata di poteri speciali. Le storie di volontariato che conosco in prima persona non parlano di eroismo, ma umanità.
Il racconto comune sul volontariato è permeato da una cultura ipocritamente cattolica. Attenzione, non sto parlando del cattolicesimo vero e proprio. In Italia, però, c’è una ipocrisia cattolica attorno al mondo del volontariato. È una narrazione ambientata in un’atmosfera densa di doveri e di colpe. Anche quando si tratta di organizzazioni laiche.  C’è una cultura del volontariato intrisa di questi stereotipi che portano con sé un carico che rende tutto pesante. Bisognerebbe iniziare a scaricare questi impliciti. 

Un altro stereotipo del volontario è lo ‘sfigato’, l’opposto dell’eroe. Penso all’Anna del suo libro Cerchi di capire prof che a 26 anni si sente già vecchia …
Il volontario viene percepito come persona a contatto con la sfortuna nelle sue diverse accezioni. Nel sentire comune esiste anche l’interpretazione “non ha trovato niente meglio da fare che stare a contatto con le sfighe, dunque è sfigato anche lui (o lei)”. Proprio come Anna, che per essersi fermata un attimo a 26 anni si sente già vecchia, e sfigata appunto, perché almeno temporaneamente è fuori da certi schemi predeterminati su cosa significhi avere o non avere successo oggi. In una società che corre per produrre non c’è spazio per chi si ferma, e se tu hai spazio perché ti sei fermato sei sfigato. Pensando ad Anna la sua storia potrebbe essere così: per non sentirsi vecchia e inutile si ferma un attimo, prova a fare volontariato e magari qualcuno da fuori dice “certo, s’è fermata, cosa volevi che facesse? Non produceva, è già vecchia, fa la volontaria”. Perché se a 26 anni fai la volontaria c’è chi ti considera vecchia. Come se il volontariato fosse necessariamente “roba da vecchi” (che è poi un altro stereotipo). È una narrazione distorta, ma esiste. Tra le due narrazioni comuni dell’eroe e dello sfigato, torno a ripetere, ciò che manca è proprio il dato di realtà: il piacere che vive chi fa volontariato. 

Le narrazioni distorte che abbiamo visto fin qui intorno al volontariato hanno prodotto una difficoltà nel raccontare perché vale la pena fare volontariato?
Sì, è così. Hanno generato nel tempo una visione dualistica sia tra chi è volontario e chi non lo è, sia tra il volontario e il soggetto che riceve l’azione volontaria. Tutto questo crea distanza, toglie energia creativa alla comunicazione del volontariato, toglie passione positiva al discorso. Ma basterebbe raccontare la normalità e rendere più accessibile l’esperienza. Ci sono una moltitudine di microstorie che andrebbero raccontate con semplicità e naturalezza. Storie che valorizzano la soddisfazione e la gioia. Ecco questo non c’è nella comunicazione sociale.

Se dovesse immaginare di ripulire il mare della comunicazione del volontariato, quali detriti porterebbe a galla? Cosa invece conserverebbe con cura?
Eliminerei i detriti fatti dei luoghi comuni di cui abbiamo parlato, i concetti di colpa, sacrificio ed eroismo. Sono dei detriti perché portano pesi. Torniamo al significato di stereotipo: un concetto che ha un suo fondamento, ma si irrigidisce perché viene ripetuto. A furia di ripetere negli anni e nei decenni questo tipo di immagine ora è difficile svuotarla. Come si fa? Semplificandola e mostrando ciò che ho detto prima, l’altra faccia del volontariato: il vantaggio in termini di appagamento emotivo personale. Tanto è vero che ognuno avrà un ambito di volontariato più congeniale. C’è una marea di possibili bisogni di cui occuparsi. Se non ti senti di fare una cosa, ne farai un’altra. Il volontariato dovrebbe essere a misura di chi lo fa. Per comunicare il volontariato farei brillare davvero la piacevolezza che ti permette di aiutare le persone che ne hanno bisogno. Ridare valore a questi aspetti aiuterebbe anche l’aspetto relazionale che, ricordiamolo, è bidirezionale. Nel fare volontariato non è che i bisogni del singolo si annullano, ma si incontrano con quelli dell’altro. Questo a volte sembra essere negato, proprio per quell’ipocrisia di cui parlavo prima. Come se uno esprimendo i propri bisogni individuali diventasse egoista. E poiché l’egoismo è in contrasto con l’altruismo, il volontariato è tutto altruista. Non esiste più lui o lei, ma esiste solo l’altro. Questa è una delle componenti della distorsione da cui dovremmo liberare la comunicazione.
Lo dico da cittadina e da volontaria che pensa a quanto potrebbe essere positivamente contagiosa una narrazione dell’esperienza di volontariato liberata da certi stereotipi. Mi domando sempre come mai ci siano tante persone che si sentono vuote, scontente, in depressione, sole, a cui purtroppo non scatta il desiderio di intrecciare una delle tante storie del “si potrebbe fare qualcosa per aiutare”. Troverebbero tutto un mondo… e si rinasce, senza essere superman e superwoman.

Per comunicare è imprescindibile l’uso dei nuovi media, che però hanno regole del gioco e linguaggi, tagliati per altri generi di comunicazione. Può il volontariato rimanere coerente ai propri valori utilizzando con efficacia i nuovi media?
Questa domanda aggiunge allo stereotipo su volontariato lo stereotipo sulla comunicazione e i nuovi media. Non è vero che i social media sono solo “markettari” o luoghi dove si sviluppa la peggiore comunicazione. Penso che invece i social media, se usati bene, possano essere un veicolo interessante proprio perché permettono di frammentare le storie quotidianamente, ora dopo ora, usando più linguaggi espressivi. Posso fare il diario di un’attività, naturalmente nel rispetto della privacy e della dignità della persona. Potrei mostrare le mie mani che ritagliano qualcosa, o che cucinano insieme a quelle della signora o del signore di turno. I social possono essere utili all’interno di un’associazione anche per organizzarsi, scambiarsi informazioni, aiuto. Penso ai gruppi WhatsApp, che vengono usati con questa funzione.
La demonizzazione del mondo di Mark Zuckerberg viene immediatamente smontata. La vita organizzativa può essere agevolmente raccontata attraverso Facebook, Instagram. Bisogna saperlo fare ma non è troppo complesso, e ancora, per farlo non occorre essere “markettari”. L’importante è non mostrare la solita vecchia storia di cui sopra. Non devi trasfigurare una realtà che non c’è. 

Nel suo libro Simona parla della sua precarietà lavorativa definendola come una condizione di ‘fragilità’ positiva. Esiste una fragilità positiva anche nel volontariato?
Sì, attraverso la narrazione di piccole storie si può ridare valore alla fragilità, che non è solo dell’altro, ma anche propria. Senza cadere nella retorica dello storytelling, che non serve a nulla.  Le storie devono essere vere nella loro semplicità. Secondo me quando riconosci e accetti la tua fragilità diventi più forte, un po’ come ha fatto Simona. Può capitare che mentre stai aiutando un’altra persona sei stanco e non ce la fai più. Il modo più semplice per uscirne è dirlo, e improvvisamente anche la persona più bisognosa che hai di fronte potrebbe dire “fermati” o addirittura potrebbe cercare lei stessa un modo per aiutarti. È la storia dei due bambini nel bosco. C’è buio e freddo e hanno tanta paura. I due fratellini si tengono per mano e a un certo punto uno va in crisi, si mette a piangere e dice “non ce la faccio”. L’altro, anche se ha paura, prova a consolarlo e fargli forza “dai, insieme ce la facciamo” e continuano ad andare avanti. Improvvisamente la paura ha il sopravvento sul bimbo che sembrava forte e che entra a sua volta in crisi. I ruoli di forza e fragilità si alternano e il tutto è legato alla capacità di ammettere la propria fragilità. Se il volontario o la volontaria diventa capace di riconoscere e ammettere la propria fragilità sono certa che troverà la forza nell’altro. Quando accetti e riconosci la tua fragilità e la metti a disposizione diventi fortissima. E non diventi fortissima da sola, perché l’altro che stai aiutando ti aiuterà a sua volta. È sicuro, automatico, fisiologico. È quasi animale. Forse per comunicare meglio il volontariato e renderlo più umano bisognerebbe recuperare questa dimensione di normalità fragile.

Quale ricchezza ci lascia il discorso che il volontariato ha tracciato durante la l’emergenza?
Il fermo del tempo ha costretto le persone a fermarsi e riflettere. Questo ha mandato in crisi molte persone, però si è ampliata l’idea del mutuo aiuto. Si sono viste situazioni molto belle e positive, come una spesa portata al vicino, i saluti dai balconi, le videochiamate e tutti i gesti creativi per combattere le solitudini.  La stessa maggiore attenzione che le ragazze e i ragazzi hanno nei confronti del volontariato è un po’ erede di questo periodo. La speranza è che si riservi memoria e attualità al bello di certe azioni, che non svanisca tutto e che, dopo, non si ritorni a quella frenesia incontrollabile che conosciamo bene. Qualsiasi
forma di ascolto, aiuto, condivisione è preziosa. Nella sua naturalezza accorcia delle distanze.

Un estratto di questo articolo è stato protagonista di una “lecture” al festival milanese BookCity Milano, grazie alla voce di Tommaso Amadio, attore, regista, co-direttore artistico Teatro Dei Filodrammatici.

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