Divertente, irriverente, un po’ aggressivo e sovversivo è il carattere e il nome con cui si definisce una compagnia trentina che aderisce alla rete nazionale di teatro nell’ambito della salute mentale. Si chiama “Ciaza Mata”, tradotto dal dialetto significa “caccia selvaggia” e fa riferimento alla mitologia norrena giunta fino al nord Italia. Secondo la leggenda, tra i boschi montani si aggira un corteo notturno di creature sovrumane guidate da un capo. Sono mostri, spettri o spiriti impegnati in una impetuosa battuta di caccia, e tutte le persone che si trovano nei paraggi durante il loro passaggio vengono rapite, diventando così parte del gruppo. “La scelta di questo nome è un po’ carnevalesca e sarcastica, spiega la regista Elena Galvani. Fa parte della tradizione culturale dei nostri luoghi ed è una simpatica metafora che ci descrive, perché siamo estremamente ironici e non ci è mai piaciuto il pietismo su di noi.”
La compagnia teatrale è nata nel 2008 all’interno dell’allora Centro diurno per persone sofferenti di disagio psichico di Cles grazie all’iniziativa di Alessandra Slucca e Annamaria Dell’Eva, che all’epoca erano operatrici sanitarie e oggi collaborano come volontarie. Volevano avviare un laboratorio teatrale dedicato a coloro che frequentavano il luogo, perché il teatro, coinvolgendo la persona nei suoi vari aspetti quali la parola, il corpo, la mente, il lavoro personale e di gruppo, dal loro punto di vista era l’attività espressiva ideale da inserire in un contesto psichiatrico. Contattarono così Elena Galvani e Jacopo Laurino, giovani attori locali diplomati all’Accademia dei Filodrammatici di Milano conosciuti sul territorio che dal 2004 stavano portando avanti un progetto locale di teatro di comunità: “Stradanova Slow Theatre”. Un tipo di teatro pensato “per” la gente e diventato poi, lungo il percorso, teatro “con” la gente”, a detta dei suoi creatori. L’alchimia ha funzionato.
Nei primi tempi il lavoro era esclusivamente interno al Centro di Salute mentale e, racconta Jacopo Laurino “si è sempre fatto teatro in maniera tradizionale, guidati da un obiettivo artistico e professionale che unisce tutte le persone coinvolte. Non c’è mai stata un’ottica di teatroterapia.” In quel periodo era il gruppo che si apriva alla popolazione portando il suo spettacolo pensato per il pubblico delle valli trentine. Il primo successo fu “Il Babau”, tratto da una raccolta di racconti di Dino Buzzati piuttosto sopra le righe, spiega Elena. “Avevamo scelto testi che si sposassero bene con le personalità che avevamo nel gruppo. E il risultato fu un enorme successo. Venne tantissimo pubblico e le persone furono colpite dalle capacità dei nostri attori, che sono molto bravi.”
La compagnia ha iniziato a girare un po’ e farsi conoscere nel territorio. Da lì era nata l’idea di cominciare a mescolare gli attori, portando dentro gli spettacoli di Ciaza Mata dei volontari esterni che facessero gli attori insieme ai cosiddetti utenti. L’esperimento andò molto bene e i due registi scelsero di tentare l’operazione inversa: iniziarono così ad inserire attori sofferenti di disagio psichico nei loro progetti teatrali esterni al Centro diurno. “Questo è quello che chiamiamo slow theatre – spiegano Elena e Jacopo. – Decidiamo di fare uno spettacolo, di mettere in scena un testo. E cerchiamo gli attori sul territorio, tutti non professionisti, tutti persone che possono venire da contesti vari, non necessariamente attori amatoriali. C’è anche gente che non ha mai fatto teatro, ma che per qualche motivo è interessante, o è giusta per un personaggio o vuole mettersi in gioco. Ad ogni progetto si crea una compagnia diversa”. Ciaza Mata è il gruppo stabile all’interno del Centro di Salute mentale e produce spettacoli per suo conto. Ma i suoi attori spesso partecipano ad altri progetti di slow theatre. Questa formula, ormai collaudata, mette in relazione le persone, rompe la barriera della salute mentale in modo naturale e riscuote il favore del pubblico.
“Gli attori del Centro di Salute mentale colpiscono sempre e funzionano molto bene in ambito teatrale non perché sono strani, ma perché hanno una loro fragilità che espongono, che commuove, che porta subito a un’empatia con le altre persone, – spiega Elena. – E questa sfumatura di empatia umana appartiene non a loro, ma a chiunque faccia teatro con qualcosa dentro che l’ha segnato. Le emozioni vengono portate al pubblico con una capacità espressiva superiore, più profonda, diretta, commovente, senza filtri, genuina”.
Prima del Covid, quando ancora esisteva il Centro diurno, nell’ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro dei ragazzi di 16 anni sono approdati nella compagnia. Alcuni di loro avevano poca voglia di stare lì, alcuni avevano seri problemi di famiglia o disagi esistenziali tipici dell’età, tutti avevano un forte pregiudizio nei confronti di persone che vedevano come “matti e sfigati”, racconta l’operatrice Valentina Nicolini. “All’inizio la situazione era molto tesa, perché gli utenti del Centro rivivevano situazioni in cui venivano bullizzati e si sentivano rifiutati, stigmatizzati. Poi abbiamo iniziato a mettere in scena lo spettacolo ed è cambiato tutto.” Gli attori di Ciaza Mata avevano dato il meglio di sé mostrando ai ragazzi capacità espressive e creative che loro neanche immaginavano, spiega l’operatrice. “I pregiudizi finalmente calavano, gli utenti che prima erano sfigati ora erano forti e divertenti. Si era creato un clima sereno, rilassato, di confidenza. Tutti hanno avuto l’opportunità di ri-conoscersi nelle rispettive fragilità ed è stato un finale molto bello.”
Uno dei pregi della compagnia trentina è proprio la naturalezza con cui la sua attività agisce contro lo stigma. Le diversità, le fragilità e le caratteristiche peculiari delle persone sono riconosciute e valorizzate, diventano cifra espressiva finalizzata alla realizzazione di un prodotto artistico collettivo di qualità, che piace a chi lo fa e chi lo fruisce.
Con la stessa naturalezza durante il Covid la compagnia si è messa a servizio della comunità organizzando letture a distanza per tenere compagnia alle persone. E poiché da cosa nasce cosa, il gruppo ha deciso di acquistare due sim card telefoniche da utilizzare come linea diretta per fare due chiacchiere contro la solitudine. L’iniziativa, intrapresa durante il lock-down, è ormai una consuetudine durante le festività.
Tra i progetti a cui hanno preso parte gli attori di Ciaza Mata che vale la pena menzionare ci sono due serie televisive realizzate per la Fondazione Museo storico del Trentino e andate in onda su più emittenti locali: “In viaggio con Adelchi. Indagine collettiva sull’Adelchi di Alessandro Manzoni”, prodotta tra il 2020 e il 2021 e “La storia di un buon soldato” prodotta nel 2023, tratta dal romanzo satirico e antimilitarista “Il buon soldato Sc’vèik” di Jaroslav Hašek e dal testo di teatrale di Bertolt Brecht “Svejk nella seconda guerra mondiale”. Nella serie tutti gli attori della compagnia sono stati coinvolti. I registi ricordano con entusiasmo questa esperienza. “Era un contesto professionale, questo era ben chiaro a tutti. Durante le riprese si era creata una tensione altissima con i fonici, le luci, i truccatori, le macchine da presa, gli operatori cinematografici. È stata un’avventura che ci ha unito tutti, ancora di più.”
Fin qui la narrazione della storia della Ciaza Mata e della sua apertura alla contaminazione artistica ha mostrato il valore dell’impresa culturale di comunità. Ma non mancano le difficoltà e il Trentino è una realtà particolare, spiegano i due registi. Nonostante l’ottima risposta del pubblico la circuitazione degli spettacoli è bassa e difficoltosa. Il Centro Santa Chiara che è il teatro di Trento, ad esempio, non è un teatro stabile, è perlopiù una struttura ospitante, con pochissime produzioni proprie, dunque non c’è interesse né possibilità di “sperimentare”. In aggiunta le produzioni Slow Theatre e Ciaza Mata faticano a farsi riconoscere dal mondo stesso della cultura perché vengono etichettate come “teatro sociale”. Questo contribuisce a rendere molto difficile il dialogo con le istituzioni. Ciaza Mata non ha una sede per fare le prove. Il gruppo si sposta tra la Piana Rotaliana, la Val di Non e la Val di Sole, luoghi dove muoversi con i mezzi pubblici non è molto semplice e per questo conta molto sull’aiuto dei pochi volontari. “Da noi si fa musica e/o sport – spiega Jacopo – il teatro è un’arte poco praticata e poco considerata. Il nostro teatro lo è ancora meno, perché esce dagli schemi, siamo degli outsider e siamo anomali rispetto all’associazionismo culturale trentino”.
Tra queste pieghe si ritrovano alcune delle ragioni che muovono il gruppo ad aderire alla rete nazionale dei teatri della salute mentale e a sottoscrivere il “Manifesto TO BE – Il teatro offre bellezza ed emancipazione”. Secondo i registi la forza della rete è preziosa per condividere e dar voce alle buone pratiche tra regioni diverse, creando uno scambio positivo capace di arrivare anche alle istituzioni pubbliche più sorde e silenti. “La grande scommessa – afferma Jacopo – è di riuscire a far collaborare a livello istituzionale, politico e amministrativo, il mondo della cultura e quello della salute, come già accade in Emilia-Romagna”. Si potrebbe arrivare a una circuitazione extra-regionale degli spettacoli delle diverse compagnie nelle stagioni di prosa. Sarebbe una operazione di sensibilizzazione utile a tutti e sicuramente verrebbe meno la paura di aprirsi a qualcosa che il pubblico ha già dimostrato di apprezzare”.