di Nunzio Bruno – 31 maggio 2023

Gaia Agnello e Andrea Sforzi, la Scienza dei volontari 

 Dal fotografare le zanzare al catalogare rifiuti: il bello della citizen science

C’è chi fotografa le zanzare sul muro di casa o segnala gli odori strani nell’aria o cataloga i rifiuti raccolti sulle spiagge. Piccoli gesti di volontariato che però cambiano il mondo grazie alla citizen science, un nuovo modo di fare scienza con l’impegno gratuito dei cittadini. Sviluppatasi ampiamente in alcuni Paesi europei, in Italia si sta progressivamente affermando, ma rimane un fenomeno ancora nuovo. VDossier se ne occupa perché è una forma di volontariato che offre possibilità innovative di partecipazione e di impegno gratuito per gli altri. Per questo intervista due pionieri del settore in Italia, Andrea Sforzi, biologo e direttore del Museo di storia naturale della Maremma di Grosseto, e Gaia Agnello, ecologa esperta in conservazione della natura. Sono rispettivamente presidente e vice presidente dell’associazione Citizen Science Italia.

Sforzi, cosa si intende per citizen science?
È un concetto estremamente ampio e trovare un’unica definizione è veramente difficile. Negli ultimi anni sono usciti vari lavori scientifici che hanno cercato di delinearne i contorni. Si usa dire che la citizen science è l’interfaccia tra scienza e società. Pertanto, ha in sé la complessità della scienza – nella sua varietà di ambiti, metodologie e applicazioni – e la complessità della società nel suo insieme. Inoltre, la citizen science è inclusiva, quindi si rivolge a tutti indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla condizione sociale, dal fatto che una persona abbia o meno disabilità… Dunque, per quanto sia difficile fissarne una definizione, si potrebbe dire che la citizen science è il coinvolgimento di volontari e scienziati in attività di ricerca collaborativa, per generare nuova conoscenza basata su evidenze scientifiche. In questa definizione, vi è la parola coinvolgimento assieme ai termini volontari e scienziati, per evidenziare che l’interazione deve essere reciproca, in ambedue le direzioni. Quindi, volontari che si mettono a disposizione e lavorano insieme agli scienziati; scienziati che, dal canto loro, aprono metodologie e applicazioni, in modo che siano utilizzabili dal numero di persone più ampio possibile. Tutto ciò con lo scopo di fare “ricerca collaborativa”, dove tutti hanno un ruolo attivo nel generare nuove conoscenze basate su evidenze scientifiche. Pertanto, alla base della citizen science vi deve essere un protocollo, poiché è scienza e non semplicemente educazione socio-ambientale o divulgazione.

Con la citizen science, allora, gli scienziati hanno trovato un modo per lavorare meno, o comunque per avere della manodopera gratuita attraverso i volontari?

No, se vi fosse tale atteggiamento, non sarebbe tale, prosegue Sforzi.  Forse un’impressione del genere si potrebbe avere perché l’esperienza più comune, soprattutto in Italia, riguarda progetti top-down ovvero progetti elaborati dai ricercatori a cui i volontari partecipano. In realtà, la citizen science è anche bottom-up, cioè cittadini che si organizzano poiché ritengono opportuno raccogliere dati su un determinato fenomeno e loro stessi coinvolgono gli scienziati. Quindi è un approccio a più direzioni.

Sì, aggiungerei, interviene Gaia Agnello, che ormai la citizen science può essere considerata un ambito di ricerca a sé stante. In esso, i ricercatori sono chiamati ad aggiornarsi e ad approfondire aspetti connessi alla sua applicazione e al suo sviluppo, uscendo così dagli ambiti di competenza tipici di uno scienziato tradizionale. Infatti, occorrono approcci interdisciplinari che tengano conto delle metodologie di ricerca delle scienze sociali, ma anche della psicologia; come pure tutti gli aspetti comunicativi nella gestione delle risorse umane… La citizen science, quindi, è un ambito che richiede al ricercatore di integrare le risorse in modo del tutto peculiare. Se, ad esempio, ci si avvale dell’aiuto dei volontari, si dovranno intrecciare metodologie di ricerca sociale con il recruitment dei partecipanti, così come la gestione delle loro aspettative e l’implementazione di processi di comunicazione efficaci.

Il mondo scientifico come accoglie questo modello partecipativo di scienza? Come un’eresia o è realmente un nuovo approccio condiviso?

Il mondo scientifico è un’entità estremamente varia, risponde Sforzi, per cui è difficile valutare le reazioni. Sicuramente la citizen science nelle sue prime fasi è stata osteggiata e, forse, alcune “vecchie guardie” continuano a guardarla con diffidenza. È pure vero che da quando il fenomeno è diventato più noto, il termine talvolta viene usato a sproposito, applicandolo a contesti diversi. Tanto che l’associazione europea (fondata a Berlino) ha redatto una sorta di decalogo che indica i principi di base che deve avere un progetto. Se non possiede tali caratteristiche, non è citizen science. Fra queste vi è quello a cui abbiamo accennato prima, ossia che i cittadini non debbano essere sfruttati, anzi devono avere un ruolo attivo ed essere tenuti in grande considerazione. L’applicazione di questi principi rende la nostra definizione sicuramente più accettata dal mondo scientifico in generale.

Oltre ad essere un modo diverso di fare scienza, qual è l’incidenza sul tessuto sociale e sul panorama culturale?

Gli effetti dal punto di vista sociale sono stati studiati ampiamente negli ultimi anni, specifica Gaia Agnello. Innanzitutto, la parte socio-relazionale è una delle motivazioni che spinge un volontario ad avviare una partecipazione in un progetto. Viviamo ormai in società molto individualistica e il contatto con la natura – se si tratta di un progetto ambientale – o il contatto con un gruppo di persone – con cui condividere scopi e interessi – sono stati rilevati scientificamente come alcune delle motivazioni nel coinvolgimento in questa attività. Tale dato si collega a un altro aspetto rilevante: è uno strumento efficace per sviluppare un nuovo e più forte senso di comunità, perché alimenta il senso di appartenenza a un luogo, come anche la responsabilità verso di esso. La citizen science, pertanto, ha un potenziale enorme dal punto di vista sociale, stimola e potenzia la cittadinanza attiva. Questi sono i risultati e gli impatti che ci auguriamo si possano avere sempre di più in Italia.

A questo proposito, aggiunge Sforzi, una delle caratteristiche importanti di cui si parla meno è il policy making. La citizen science ha il potere, laddove è strutturata bene e ha numeri importanti, di raccogliere dati e informazioni che poi determinano o influenzano decisioni politiche. È questa la cosa principale che la distingue maggiormente rispetto alla scienza tradizionale. Posso fare due esempi molto semplici.

Il primo è un progetto portato avanti dall’Agenzia europea per l’ambiente che ha sede a Copenaghen. Si chiama Marine LitterWatch e ha coinvolto decine di migliaia di cittadini di tutto il continente nella pulizia delle spiagge. Oltre a togliere i rifiuti dagli arenili, i cittadini hanno anche fatto un’azione di ricerca, secondo un protocollo preciso, lo stesso in tutti i Paesi, che contava anche quello che veniva trovato sulla spiaggia e lo classificava. Sulla base di questi dati è stata avviata l’elaborazione della direttiva europea del 2019 che ha messo al bando alcuni oggetti monouso in plastica. Dunque, la partecipazione attiva, volontaria delle persone a un progetto strutturato ha consentito un ritorno positivo nella vita degli stessi cittadini e delle loro comunità. Si tratta di una dimensione che non va assolutamente trascurata. L’altro progetto che è in corso non ha la stessa forza comunicativa, ma è altrettanto importante.

È denominato Mosquito Alert perché si occupa delle zanzare. Nato come progetto spagnolo, adesso grazie a un finanziamento europeo è attivo in 19 Paesi tra cui l’Italia. I cittadini hanno il ruolo di segnalare la presenza di zanzare, fotografandole, indicando giorno e ora ed eventuali siti di riproduzione, registrando anche le loro punture in base alla fascia oraria e al periodo, alle parti del corpo colpite, specie di zanzara… Tutte queste informazioni, raccolte in un archivio elettronico nazionale condiviso all’interno di un database europeo, migliorano la conoscenza pure delle specie alloctone (zanzare provenienti da altre parti del pianeta) potenziali portatrici di patologie anche molto gravi. Senza la citizen science sarebbe impossibile immaginare un progetto di ricerca del genere che possa fare un monitoraggio così dettagliato e capillare. Si tratta di migliaia di persone coinvolte a livello nazionale, tanto che nel 2022 l’Italia ha superato la Spagna, luogo d’origine del progetto. Da noi sta veramente avendo molto successo, anche grazie a una app che è uguale per tutta Europa. Quindi, stesso strumento e stessa metodologia consentono di costruire mappe di distribuzione omogenee fra loro e affidabili. Insomma, una vera esperienza di citizen science su scala europea.

Guardando alla realtà italiana, vi sono esperienze significative che potete raccontare? Esistono dei dati?

Nel panorama italiano vi sono molte esperienze, continua Sforzi, anche se l’Italia, rispetto ad altri Paesi, è arrivata un po’ più tardi. Probabilmente perché la mentalità scientifica è più diffusa nelle nazioni anglosassoni e nel Nord Europa, ma anche perché da noi, forse, c’è un’attitudine meno spiccata alla partecipazione. Tuttavia, negli ultimi anni ci siamo resi conto che il fenomeno è in costante espansione. Basta vedere la partecipazione ai nostri convegni nazionali: ne abbiamo organizzato uno a Roma nel 2017 (nella sede centrale del Cnr – Centro nazionale delle ricerche) e un altro nel 2021 a Grosseto. Il numero e la varietà dei progetti che sono stati portati all’ultimo convegno era cresciuta tantissimo rispetto al primo, anche come tipologia. Con nostra sorpresa sono aumentati anche i progetti “dal basso”, cittadini che si sono auto organizzati. In sostanza, è un fenomeno che piano piano sta radicandosi anche in Italia. Per quel che riguarda i dati, la rilevazione dell’entità numerica, della qualità dei progetti e delle persone coinvolte è una delle prime cose che vorremmo fare come associazione. Risulta, comunque, difficile censire i progetti e classificarli. Soprattutto considerando che si tratta di un fenomeno in continua evoluzione che necessita, quindi, di un monitoraggio costante e continuo. Al momento numeri precisi non siamo in grado di darli, ma sicuramente nel complesso si può parlare di migliaia di italiani coinvolti.

Sul piano delle esperienze significative, posso portare due esempi, interviene Agnello. Il primo è un progetto citizen science di Arpa Sicilia, si chiama Nose (Network for Odour SEnsitivity). E’ stato sviluppato insieme all’istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Bologna. Esso consente ai cittadini delle zone ad elevato rischio della Sicilia (Gela, Augusta, Priolo, Milazzo e macroarea di Catania) di segnalare problematiche odorose, dovute soprattutto agli impianti di raffinazione e a quelli industriali. Grazie a queste segnalazioni, attraverso dei modelli scientifici, i ricercatori sono in grado di ricostruire la retrotraiettoria che porta alla sorgente dell’odore. Quindi, un progetto  di collaborazione fra istituzioni e cittadini, in cui questi ultimi costituiscono una capillare rete di osservazione. Il secondo esempio è City Nature Challenge. Iniziativa internazionale nata nel 2016 negli Usa grazie al Museo di storia naturale di Los Angeles e all’Accademia delle scienze della California di San Francisco. Entrambe le istituzioni lanciano una competizione fra le due città, invitando i cittadini – per quattro giorni consecutivi – a segnalare tramite una app le specie animali e vegetali presenti nel loro contesto urbano. Dal 2016 questa iniziativa è diventata internazionale, coinvolgendo, l’anno scorso, oltre 500 città e utilizzando tre indicatori: numero di partecipanti, di specie osservate e di osservazioni raccolte. Dati che annualmente sono messi a disposizione sul sito ufficiale. In Italia questa iniziativa è stata adottata nel 2018 e l’anno scorso hanno partecipato una dozzina di città. Milazzo in Sicilia è risultata al primo posto per la partecipazione.

Quali difficoltà avete incontrato nel coinvolgimento dei cittadini? Che tipo di reazione avete avuto ed eventualmente che problemi ci sono stati?

Innanzitutto la difficoltà principale, spiega Sforzi, è non avere un finanziamento continuo che consenta di avviare e proseguire nel tempo la ricerca. Le difficoltà si pongono ancor prima. Faccio un esempio. I primi progetti di citizen science nazionale sono nati all’interno del programma di finanziamento europeo Life con una copertura di tre anni. Una volta concluso il triennio sono cessati gran parte dei finanziamenti e sono finiti i progetti. Invece è fondamentale mantenere l’attenzione del pubblico nel tempo, per una raccolta regolare dei dati. Pertanto, la difficoltà principale è mantenere il più a lungo possibile un progetto attivo. Da una parte, proprio come progetto in sé, con fondi che permettano di pagare il personale, di acquistare strumenti, di poter svolgere una verifica dei dati.

Dall’altra, avere la possibilità di coltivare l’interesse del pubblico, rinnovandolo nel tempo e mantenendo così un buon livello di partecipazione. Un’altra difficoltà, che probabilmente si incontra in tutta Europa e non solo in Italia, è riuscire a coinvolgere le persone. Oggi si è talmente presi da mille cose da fare che difficilmente i cittadini riescono a trovare il tempo da dedicare ad altro. Eccetto nei casi in cui l’impegno sia orientato a dare una mano per fare qualcosa di utile (come ad esempio verso l’ambiente o la comunità o le persone in difficoltà), oppure sia connesso alla passione e agli interessi personali (un caso tipico sono i progetti di citizen science nell’ambito dell’astronomia).

Purtroppo, quello che manca attualmente alla citizen science è la notorietà, cioè un’adeguata informazione per farne conoscere l’esistenza. Nei miei incontri pubblici, quando ne parlo, vedo le persone entusiaste. Fra i cittadini non manca la voglia di farsi coinvolgere, solo che in Italia siamo ancora agli inizi e ci vogliono tempo e lavoro per una diffusione e un coinvolgimento su larga scala. Anche per questo nasce la nostra associazione.

In sintesi, le difficoltà di finanziamento rendono debole la capacità di espansione della citizen science?

Sì, continua Sforzi, le cose sono collegate, anche se si stanno tentando strade nuove grazie ai social, al web e al passaparola. Io, ad esempio, con il Museo di storia naturale della Maremma, ho diversi progetti attivi e alcuni sono a costo quasi zero. Diamo una veste di citizen science alle attività ordinarie del Museo e i suoi fruitori diventano, di fatto, potenziali collaboratori dei progetti di ricerca. Nel nostro Paese altri stanno iniziando a farlo, sebbene certe volte nel mondo accademico sia difficile uscire da alcuni schemi e ruoli. Si è abituati a fare le cose sempre nello stesso modo e non si vedono altre possibilità. Invece abbiamo la modalità di un cambiamento di paradigma che modifica la prospettiva. Persino con i miei più stretti collaboratori – tutte persone molto in gamba e con cui lavoro da anni – è stato difficile avviare la citizen science. Ci sono voluti due-tre anni prima che avessero piena comprensione dei meccanismi. Un cambio culturale del genere richiede tempo.

Aggiungerei una nota in più, interviene Agnello. Per facilitare questo processo di sviluppo e di accettazione bisogna cercare il più possibile di integrare la citizen science anche nei sistemi che già esistono. Ad esempio nell’ambito scolastico, attraverso attività di educazione ambientale o di educazione civica o di scienza, dando così l’opportunità agli alunni di imparare “facendo le cose”. Un altro versante potrebbe essere la facilitazione dei processi partecipativi nell’ambito delle politiche ambientali: aprire le porte al coinvolgimento dei cittadini nella raccolta dati che deve fare ogni governo europeo, suscita sensibilizzazione e interesse nell’opinione pubblica. L’accortezza deve essere quella di offrire al cittadino una varietà di forme di coinvolgimento che permetta a tutti di poter partecipare in funzione delle proprie effettive possibilità.

In questo ambito conoscete esperienze tipiche di volontariato? Cioè, associazioni nate per fare questo tipo di attività e che si sono strutturate proprio con questo obiettivo?

Sì, risponde Sforzi, al nostro convegno nazionale del 2021 sono state presentate alcune iniziative nate dal basso. Una di queste riguardava la qualità delle acque del fiume Elsa in Val d’Elsa. Era nata dall’idea di due ragazzi che si sono dati da fare e hanno coinvolto gli abitanti del luogo. Ancora oggi stanno lavorando e raccolgono dati su tutto il fiume (LaGorà Aps di Colle Val d’Elsa). Mi viene in mente anche l’organizzazione di volontariato “A Sud. Ecologia e cooperazione” (asud.net) di Roma che promuove attività di cittadinanza attiva sui temi ambientali. Fra l’altro, anche loro hanno lavorato su un fiume, l’Aniene.

Quindi, la citizen science ha pure una dimensione di “prossimità” e di territorialità.

Esattamente, conferma Agnello. Non va dimenticato che la citizen science viene “co-creata”. Probabilmente la forma più auspicabile, cioè cittadini che per affrontare un problema, per esempio nell’ambito ambientale, cercano aiuto, supporto e supervisione da uno scienziato o un ricercatore. Individuata la metodologia scientifica più adatta, impostano insieme, co-creano, il progetto e tutte le sue componenti in maniera collaborativa. In altri termini, una questione percepita a livello sociale e individuale diventa occasione per un percorso ideato, gestito e condotto dai cittadini in collaborazione con scienziati e ricercatori. Si tratta del modello più sostenibile nel tempo. Difatti, in questo caso la motivazione del partecipante volontario sarà molto forte, per cui il coinvolgimento nel progetto, se gestito bene, continuerà in tutte le diverse fasi: dalla raccolta dati, alla loro analisi, alla comunicazione degli esiti.

Questa attività è divertente o ci si annoia da morire?

È divertente, afferma Sforzi. Meglio, dovrebbe esserlo o almeno punta ad esserlo. Magari non lo sarà sempre, però si parte dal presupposto che, da un lato, la si fa per passione e, dall’altro, la si fa per essere utili. Aggiungerei che, in passato, proprio Gaia Agnello si è occupata di studiare questi aspetti più motivazionali.

Il divertimento può essere una motivazione, come pure l’utilità, conferma Agnello. Possono essere tanti gli aspetti per i quali lasciarsi coinvolgere da progetti di citizen science. Non trascurerei la dimensione dell’interazione sociale che, come emerge dalle rilevazioni, è uno dei motivi principali che spingono a partecipare. Così come la possibilità di vivere occasioni di sviluppo personale, migliorando la propria autostima, le proprie capacità di apprendimento, i propri livelli di conoscenza e le proprie competenze sociali. Ognuno di questi aspetti, ovviamente, è commisurato alle peculiarità del progetto a cui si partecipa. Alcuni progetti, infatti, hanno una valenza più spiccatamente sociale, rispetto ad altri orientati maggiormente all’osservazione e a impegni “in solitaria”. In tal senso, offrire una certa varietà di proposte aiuta il volontario a scegliere in modo motivato, sulla base della propria indole, dei propri interessi e possibilità.

Qual è il rapporto fra voi e il volontariato? Per quanto siate dei professionisti in questo ambito, c’è un vostro investimento in termini di gratuità, passione e dono?

La mia esperienza nasce nel volontariato, prosegue Agnello. Quando vivevo in Inghilterra e mi hanno parlato per la prima volta di citizen science, io l’ho compresa e apprezzata immediatamente. Appunto perché avevo già fatto volontariato nel periodo della scuola superiore, in seguito dell’università e anche negli anni successivi. D’altronde, nel nostro ambito ecologico e di conservazione/tutela dell’ambiente, il volontariato è una parte fondamentale della crescita professionale perché, molto spesso, prima di iniziare a lavorare si è volontari sul campo in qualche progetto.

E, invece, sull’argomento cosa dice il “paludato accademico”? No, non sono un accademico, si schermisce Sforzi. Anch’io ho un’esperienza simile. In fondo, la cosa che ci muove è la passione. Molte delle cose che stiamo facendo e che ho fatto nel corso degli anni, sono state totalmente a titolo personale, da volontario, perché credo molto in questo tipo di crescita culturale e sociale. Assumere la prospettiva del volontariato è un modo per “allineare” un po’ il nostro Paese agli standard europei. Siamo stati la culla della cultura, poi nel tempo ci siamo un po’ imbarbariti su molti aspetti. Per questo adesso, paradossalmente, dobbiamo attendere che sia la Commissione europea a imporre delle regole affinché qualcosa possa essere realizzato correttamente. In Italia c’è ancora da “risvegliare” una parte di noi che, culturalmente, nel proprio tempo libero, con passione, competenza e umanità è in grado di dare davvero molto.

Volontari della "citizen science" all'opera © Mount Rainier National Park

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