di Violetta Cantori – 16 gennaio 2023

Caregiver, senza il volontariato ancora più soli

 In Italia chi assiste i famigliari affetti da malattie o disabilità è spesso abbandonato alle proprie fatiche quotidiane, umane e burocratiche. In Emilia-Romagna l'associazione AssiSla cerca di invertire la tendenza, aiutando chi aiuta, ma mancano i volontari

Ogni giorno nel mondo ci sono milioni di persone che si prendono cura di un familiare non autosufficiente a causa di una malattia o una disabilità, donando assistenza, affetto incondizionato, tempo, a volte così tanto da dover lasciare il lavoro o faticare a portare avanti gli studi. Le persone che vivono questa esperienza si chiamano caregiver familiari, in Italia sono circa 8 milioni quelle censite dagli ultimi dati pubblicati dall’ISTAT nel 2018, ma probabilmente il numero oggi è più alto.

Il caregiving familiare, detto anche ‘informale,’ è un’attività volontaria apparentemente sommersa che non si sceglie, capita, sconvolge equilibri familiari, personali e sociali, richiede resilienza, forza. Se molti caregiver familiari una volta terminato il lavoro di cura hanno bisogno di ricucire i fili della propria vita lasciandosi il passato alle spalle, alcuni di essi decidono di ‘tornare’ o ‘non mollare’ e fare volontariato per dare un sostegno concreto a chi si sta prendendo cura di una persona cara.

Non esistono ancora dati che possano offrire una panoramica di questo particolare tipo di volontariato, ma ci sono storie. AssiSLA è una piccola associazione di Bologna che opera anche a Ferrara e Ravenna. Dà supporto alle persone colpite da SLA o malattie simili e alle loro famiglie attraverso una gamma di servizi assistenziali tra cui ci sono l’ascolto, l’informazione tempestiva, la capacità di mettersi nei panni dell’altro per offrire non solo una soluzione al problema, ma anche e soprattutto comprensione, empatia.

“Ѐ un volontariato che viene dal cuore – spiega Nino, segretario e responsabile dello sportello ravennate di AssiSLA -, perché quando vieni toccato da una cosa del genere capisci di avere bisogno di aiuto e allo stesso tempo, se puoi, se te la senti, ti viene spontaneo darne. Quando a mia mamma è arrivata la diagnosi ci è crollato il mondo addosso, eravamo completamente impreparati. In quel momento la testa vacilla, non ci sono appigli e, magari non è sempre così, spesso capita che ti mandino a casa con una pacca sulla spalla e nulla più. Nessuno mi aveva parlato di AssiSLA, l’ho conosciuta quando abbiamo dovuto affrontare i primi problemi seri. La SLA è una malattia completamente invalidante, non ci sono cure e anche i palliativi possono poco. Per assistere ti sembra di annullarti, ti ritrovi a non poter fare il padre, il nonno, e anche se sai che non può essere diversamente da così non è facile. Quando mi sono rivolto all’associazione ho potuto parlare con qualcuno che sapeva esattamente cosa stavamo passando, sapeva di cosa avevamo bisogno. Mi hanno aiutato a conoscere la malattia, mi hanno insegnato come agire nell’assistenza, ho imparato a prendermi alcuni spazi necessari per resistere. Mi hanno aiutato a mediare con le strutture sanitarie, a trovare il modo di risolvere le questioni. L’aiuto dei volontari è stato impagabile. Mi sono sentito meno solo ed è nata così la spinta a fare lo stesso, condividere, per alleggerire il peso che altri come me stavano portando.”

Nino ha iniziato a fare volontariato in AssiSLA quando era caregiver familiare, e non ha mai smesso. Al momento è l’unico volontario per tutta la Romagna e vorrebbe cercare altre persone da coinvolgere, ma non è semplice, perché i bisogni a cui rispondere sono tanti e il tempo viene interamente assorbito dalle richieste quotidiane di aiuto.

“Non è un volontariato semplice il nostro, e non tutti sono in grado di farlo. Se dovessi ipotizzare una stima di quante persone che ho incontrato nei miei percorsi tornano come volontari, penso a un 5%, non di più – spiega Fabrizio, vicepresidente e responsabile della sede ferrarese di AssiSLA. – Anche io ho iniziato durante la malattia e ho scelto di proseguire il mio impegno perché so che è ‘una mano santa’ quando ti senti perduto e allo stesso tempo sai che non puoi mollare di un millimetro. Il caregiver familiare è insostituibile, ma non può essere da solo. È colui o colei che assiste quasi ininterrottamente, ha un rapporto più intimo con la persona malata e pone estrema attenzione nel comprenderne i bisogni che cambiano e aumentano giorno dopo giorno. Per me ad esempio sono stati fondamentali i primi due anni della malattia, quando ancora c’era la parola, per imparare a ri-conoscersi, trovando la capacità di leggere all’istante alcune necessità, alcuni stati d’animo e agire bene, per alleviare, per far stare meglio, per esserci. Poter contare su volontari ‘esperti’ e vicini mi ha aiutato a farcela. E poter essere io stesso aiuto per qualcuno che so, ne ha un estremo bisogno, mi apre il cuore. Il nostro volontariato significa ‘stare con’”.

Accanto a esperienze come quelle di Nino e Fabrizio ci sono racconti di persone che, una volta rielaborato il lutto e recuperate le energie, decidono di rimettersi in gioco e ‘tornare’, con il bagaglio di conoscenze e competenze maturate durante il caregiving e con quelle specifiche del proprio curriculum vitae. Questa è la storia di Nadia, volontaria di AssiSLA Bologna, comunicatrice e giornalista che prima di lasciare il lavoro per prendersi cura della persona cara ha ricoperto numerosi ruoli di responsabilità in ambito sociale e ora si sta impegnando per far crescere l’associazione, tessere nuove reti e relazioni per ampliare le collaborazioni e le opportunità.

“Diventare volontaria di AssiSLA è frutto di un percorso di consapevolezza e di riflessione. Ho lasciato a me stessa piano piano la libertà di arrivare a questo momento. Da una parte l’identificazione completa con l’altra persona nella malattia mi ha dato il privilegio di capire tante cose sulla natura umana, che nonostante le mie esperienze pregresse nel non profit e la mia sensibilità non avrei mai potuto comprendere altrimenti. D’altra parte ‘dopo’ avevo bisogno di ricostruire la mia identità e trovare una via per dare un senso a tutto. Dovevo decidere cosa fare, e ho scelto di ‘tornare’, perché qualsiasi attività facessi sentivo sempre che mi mancava qualcosa. Tornare da volontaria ha significato ricucire tanti pezzi che tengono insieme la memoria, il presente, il futuro, me stessa arricchita di tutto ciò che di positivo si è rivelato durante la malattia, nonostante il calvario. È come se tutto ciò che ho vissuto, prima, durante e dopo la malattia si potenziasse insieme, dandomi l’opportunità di svolgere un volontariato davvero utile per l’associazione e per le persone e le famiglie a cui tendiamo la mano. La nostra missione è migliorare la qualità della vita di chi soffre, e questo migliora indiscutibilmente anche la nostra.”

Un caregiver in azione © Susan Jane Golding

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