di Paolo Marelli – 12 ottobre 2021

Quando la co-progettazione è sancita dalla Costituzione

 Svolta sull’amministrazione condivisa: la sussidiarietà orizzontale è alternativa al mercato. Il costituzionalista Luca Gori: adesso le Regioni traducano le parole in fatti. Tratto da Vdossier Anno 11 numero 2 novembre 2020.

I giudici della Corte costituzionale hanno scritto la parola fine sulla tormentata vicenda della collaborazione tra enti pubblici e enti del Terzo settore (ETS) nella programmazione e progettazione di interventi sociali e solidali sul territorio.
La sentenza pronunciata dalla Consulta dispone che le pubbliche amministrazioni possono co-progettare attività e interventi di interesse generale insieme agli ETS sulla base dell’articolo 55 del Codice del Terzo Settore.
Cruciale è anche l’inquadramento di questo tipo di relazione tra pubblico e non profit nell’ambito dell’amministrazione condivisa, precisando che essa è decisamente alternativa a quella di mercato. Una svolta, quella della Corte costituzionale, che chiude una lunga controversia e apre nuovi scenari all’orizzonte.
La sentenza è quantomai importante in questo periodo di crisi sociale ed economica causato dalla pandemia, perché la piena collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore può essere proficua per rispondere ai bisogni delle fasce più fragili.
A comprendere pienamente la portata della disposizione della Corte costituzionale e quali trasformazioni porterà sulla coprogettazione di servizi e prestazioni a beneficio della società civile, abbiamo chiesto aiuto a Luca Gori, costituzionalista della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e docente di diritto del Terzo settore all’Università di Pisa.

La riforma del Terzo settore come sta agevolando il perseguimento delle attività di interesse generale?
La riforma del Terzo settore ha innescato un processo, assai complesso, di ridefinizione dell’intera realtà del non profit italiano.
Da una parte, infatti, si sono chiariti i “confini” del Terzo settore – fino a qualche tempo fa molto incerti – e, dall’altra, si è chiesto agli enti di qualificarsi, sotto il profilo delle regole di organizzazione e di funzionamento, di trasparenza e rendicontazione, di relazione con la pubblica amministrazione. Complessivamente,
mi pare si possa dire che, a metà del percorso, il giudizio possa essere positivo, pur non mancando certo talune difficoltà. Ma credo che queste ultime facciano parte
della “fisiologia” di una riforma così ampia: non si deve dimenticare, infatti, che è la prima volta che questo “settore” nella sua totalità trova una sua prima sistemazione ed ordine.
Indubbiamente, la riforma ha avuto il merito di indicare all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica l’estrema varietà degli ambiti nel quale il Terzo settore opera: non solo quelli “classici” (sanità, sociale, filantropia, eccetera), ma anche quelli meno conosciuti, eppure con una solida esperienza (dal microcredito alle nuove forme di co-housing, al commercio equosolidale).
Ciò che sta emergendo è la centralità del Terzo settore nella tutela dei diritti delle persone, nella definizione delle politiche pubblica e nella qualità della vita
delle comunità.
Non è una novità, ma per la prima volta se ne ha una rappresentazione unitaria a partire dalla definizione giuridica che ne è stata data.
Molto interessante è l’attuazione della riforma nelle Regioni: penso alla recente legge regionale della Toscana ed a quella della regione Emilia-Romagna. Altre
leggi regionali sono in elaborazione. Il processo aperto a livello statale ha dato avvio a trasformazioni a livello regionale e locale: insomma, c’è un cantiere in fermento.

Il rapporto del Terzo settore con l’Unione europea è descritto, spesso, come molto difficile. A che punto siamo?
Spesso si assiste ad una narrazione, più che ad una analisi attenta di tipo giuridico-istituzionale. Si paventa, infatti, uno “scontro” epocale fra le ragioni della solidarietà (incarnate dal Terzo settore) e quelle del mercato (sostenute dall’Unione europea).
La questione è molto più complessa, in realtà. Indubbiamente, vi è una difficoltà del diritto euro-unitario di “leggere” la specificità del fenomeno del Terzo
settore italiano, che è così legato ad importanti esperienze di imprenditoria sociale e di volontariato. A questo, ho l’impressione che corrisponda una analoga difficoltà delle istituzioni italiane di rappresentare, con la dovuta chiarezza, il “ruolo” che il Terzo settore, sia storicamente sia in prospettiva, gioca dal punto di vista dell’attuazione del principio di solidarietà.
Recentemente, la Corte costituzionale, nell’importante sentenza numero 131 del 2020, ha ribadito che non esiste una conflittualità fra diritto UE e diritto nazionale,
a condizione che quest’ultimo proponga un modello organizzativo di servizi, attività e progetti di rilevanza pubblica ispirati non al principio di concorrenza ma a
quello di solidarietà.
Si tratta di un principio già enunciato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea ed incorporato all’interno delle direttive europee sui contratti pubblici: esso,
quindi, fa già parte del patrimonio europeo.
Alla luce di questa ricostruzione, risulta difficile comprendere perché non sia ancora stata notificata all’Unione europea la richiesta di autorizzazione delle misure di favore a carattere fiscale, al fine di consentire la piena operatività del Codice del Terzo settore.
Questa notifica, infatti, potrebbe costituire l’occasione per un definitivo chiarimento del rapporto non conflittuale fra UE e Terzo settore e contribuire alla diffusione e conoscenza del modello italiano.

Sotto il profilo normativo, qualcosa si sta muovendo per garantire un equilibrio di rapporti e, quindi, di piena collaborazione tra pubblico-privato-Terzo settore. Che giudizio dare?

Le condizioni affinché il “clima” di piena collaborazione si possa sviluppare si sono create, nel corso tempo, ed in mezzo a molte avversità. La già richiamata sentenza della Corte costituzionale numero 131 del 2020 ha lanciato un messaggio molto chiaro: esiste uno spazio, che la Costituzione tutela, fra l’attività della pubblica amministrazione e quella del mercato, ispirato al principio di condivisione intorno all’interesse generale. Sul piano concreto, ciò significa che tanto la pubblica amministrazione quanto i soggetti del Terzo settore, in quanto portatori di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, possono “collaborare” insieme per costruire pro getti ed interventi non nell’ottica del committente/agente bensì in quella dei collaboratori: si individua un obiettivo, si definiscono i mezzi da mettere in campo, si lavora congiuntamente e si verificano i risultati, modificando – se necessario – obiettivi e mezzi. È la prospettiva della sussidiarietà orizzontale. L’articolo 55 del Codice del Terzo settore è espressione di questa prospettiva. È innegabile che sull’attuazione di questa disposizione vi siano state molte difficoltà, provenienti da interpretazioni troppo restrittive discendenti – a mio giudizio – da un fraintendimento sul rapporto fra diritto UE e diritto nazionale, come ho già detto. Con la sentenza della Corte costituzionale numero 131 del 2020, gli ostacoli giuridici sono (almeno apparentemente) rimossi, si apre la sfida più avvincente: trasformare questi istituti in prassi sociale ed istituzionale. Regioni ed enti locali dovranno dotarsi di una serie di strumenti per poter costruire questa relazione sussidiaria con gli enti di Terzo settore (ETS): diversamente, avremo scritto una bellissima pagina di diritto costituzionale, ma che non diviene sussidiarietà vissuta. A questo proposito, molto deve essere investito nella formazione: formazione della pubblica amministrazione, per modificare la prospettiva e cogliere la nuova modalità di esercizio della funzione amministrativa; formazione del Terzo settore, affinché sia percepita l’importanza della collaborazione, a partire dalla capacità di leggere i bisogni del territorio e delle comunità. Ha scritto la Corte costituzionale – in un passaggio denso di significato – che «gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”». Un importante riconoscimento, ma anche una grande responsabilità.

Con l’ingente somma di risorse del Recovery fund, come pubblica amministrazione e volontariato devono e possono rivedere i loro equilibri e modelli di collaborazione in fase di co-programmazione e co-progettazione degli interventi sociali?

Le risorse europee possono costituire un rilevante fattore di accelerazione della collaborazione fra Terzo settore e pubblica amministrazione. La necessità di “investire” in interventi in grado di migliorare durevolmente la qualità di vita delle comunità richiede che il Terzo settore sia costantemente coinvolto, sollecitato e formato sulle scelte da compiere, sia sul versante della programmazione sia su quello più propriamente realizzativo. Ciò potrà avvenire ad alcune condizioni. La prima è che vi sia un progetto condiviso, di ampio respiro, discusso. Non è semplice costruire relazioni a vocazione progettuale, né dal lato del Terzo settore (schiacciato spesso sull’esigenza di reperire risorse) né da quello della pubblica amministrazione, (pressata dall’emergenza del presente). C’è bisogno, invece, di un dialogo franco e costruttivo fra società civile organizzata e istituzioni, fondato sul mutuo riconoscimento, anche al fine di evitare taluni “fraintendimenti”, come si sono ripetuti nel corso dell’elaborazione della normativa emergenziale. Ciò può consentire di superare alcuni rigurgiti neo-statalisti che, di tanto in tanto, si manifestano e che preoccupano: lo Stato progetti ed intervenga, il Terzo settore, al più, esegua o copra alcune falle. La risposta alla crisi, infatti, non può essere in un inedito protagonismo dello Stato, bensì nel rafforzamento delle forme in cui pubblico e privato possono interagire positivamente. Vi è da considerare che la nuova stagione non potrà avere ad oggetto solo gli interventi sanitari (c’è stata una inevitabile, e comprensibile, sanitarizzazione del Terzo settore nei mesi della pandemia), ma aprirsi a tutti gli ambiti di attività di interesse ge nerale, nella consapevolezza che le fragilità del nostro sistema-Paese toccano diversi ambiti. Basti pensare all’emergenza istruzione, formazione universitaria. Ma si deve guardare anche alla tutela ed alla promozione dei beni e delle attività culturali, al turismo a vocazione sociale, alla protezione ambientale. Il Terzo settore è in grado di offrire una rete protettiva che supera gli steccati fra le diverse amministrazioni o ambiti materiali. Insomma, sulle risorse europee, si giocherà una partita importante non solo nel merito di ciò che vi è da fare ma, ancora prima, sul modo in cui gli interventi si faranno.

Al di là degli schieramenti partitici, sovente nel dibattito politico italiano emerge l’idea di un aggiornamento della Carta costituzionale. Se si dovesse procedere a una revisione della Costituzione, quali modifiche bisognerebbe varare affinché ci sia una maggiore valorizzazione e un coinvolgimento attivo del Terzo settore nei vari ambiti del welfare?

La Carta costituzionale del 1948 è di una modernità sorprendente. Essa è stata in grado di “accom- pagnare” le evoluzioni del Terzo settore, nel corso del tempo. La recente sentenza numero 131 del 2020, sulla scorta di molte altre pronunce della Corte costituzionale, rappresenta una sorta di “trattato” di diritto costituzionale del Terzo settore: in essa, infatti, si spiega perché e come promuovere il Terzo settore. Non credo che vi sia bisogno di modificare disposizioni della Costituzione quanto, invece, dare loro attuazione piena. L’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione, introdotto quasi venti anni fa con la riforma costituzionale del 2001, esige che tutte le amministrazioni pubbliche “favoriscano” l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento delle attività di interesse generale. Possiamo dire che, ad oggi, tale disposizione sia pienamente attuata? O, ancora prima, che essa, ancorché inattuata perché molto complessa ed esigente, costituisca il patrimonio di tutte le amministrazioni territoriali? Direi di no. Essa è, al contrario, un terreno di lavoro in gran parte da scoprire. Penso alla lezione che ci ha dato Gregorio Arena (professore di diritto amministrativo all’U niversità di Trento e presidente di Labsus, Laboratorio per la sussidiarietà, ndr) in questi anni di impegno e di ricerca sulla sussidiarietà orizzontale, mettendo in evidenza come i cittadini attivi abbiano a disposizione una pluralità di mezzi ed occasioni per entrare in relazione col pubblico, alcuni dei quali inediti. E poi, non possiamo dimenticare che l’origine ed il fine del Terzo settore risiedono nell’articolo 3 della Costituzione. Esso rappresenta il motivo per il quale il Terzo settore nasce e l’obiettivo per il quale si impegna. E l’attuazione dell’articolo 3 della Costituzione è destinato a non esaurirsi mai. Ecco, allora, che mi pare essenziale affinare la sensibilità costituzionale per identificare quegli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena partecipazione dei lavoratori (ma, si può aggiungere, dei cittadini e di ogni persona umana) alla vita economica, sociale e politica del Paese, più che pensare a modificare la Costituzione.


NOTE Luca Gori ha pubblicato, nel 2018, insieme a Pierluigi Consorti ed Emanuele Rossi, il libro “Diritto del terzo settore”, edito da Il Mulino

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