Giorno 4. Sveglia alle 6.47 (di nuovo).
Non so nemmeno chi abbia acceso la luce nella camerata, ma so che non sono stati i ragazzi. Forse il gallo immaginario che puntualmente canta troppo presto nel mio cervello.
Ho imparato che il primo caffè del giorno — quello in piedi, in silenzio, mentre si controllano le presenze — non è tanto per svegliarsi, quanto per respirare. Fare il punto. Ricordare perché sono qui.
Organizzare un campo non è solo scegliere i turni, preparare i materiali, accertarsi che ci siano abbastanza cucchiai per tutti (spoiler: non ci sono mai abbastanza cucchiai). È tenere insieme. Tenere insieme le emozioni che esplodono, le stanchezze che si stratificano, i silenzi improvvisi di chi magari ha bisogno di parlare, ma non sa da dove cominciare.
Oggi una delle ragazze, Martina, mi ha chiesto se poteva cambiare attività. Aveva paura di non essere “adatta” a stare con gli anziani. Le ho detto che va bene, che anche questo fa parte dell’esperienza. Che non c’è un modo solo per imparare a esserci. Più tardi l’ho vista seduta accanto a un signore sulla sedia a rotelle, che le raccontava della guerra. Lei annuiva. Non faceva domande, ma era lì, tutta lì. A modo suo, stava imparando.
La verità è che anche io imparo, ogni volta. Imparo a lasciare andare il bisogno di controllo. A fidarmi. A dire “non lo so” senza vergognarmi. A festeggiare le piccole cose: una cucina rimessa in ordine senza che nessuno lo chiedesse, un abbraccio spontaneo, un “grazie” sussurrato mentre si sparecchia.
La regia, in fondo, è fatta di invisibilità. Se tutto funziona, nessuno nota chi sta dietro. Ma io lo vedo, questo gruppo che cresce. E ogni sera, quando torno nella mia stanza e mi tolgo le scarpe con un sospiro, sento che ne è valsa la pena.
Domani ci aspetta una nuova giornata. E no, non ci sono abbastanza cucchiai. Ma forse ci basteranno lo stesso.