Sette Regioni italiane hanno approvato una legge organica sul terzo settore, per integrare e attuare a livello territoriale il cosiddetto Codice del Terzo Settore (decreto legislativo 117 del 2017). Le leggi regionali regolano i rapporti tra enti del Terzo settore e pubbliche amministrazioni, e definiscono strumenti e modalità per applicare la normativa nazionale nei contesti locali.
Le Regioni che hanno legiferato, in ordine cronologico, sono: Toscana (L.R. 65/2020), Molise (L.R. 21/2022), Emilia-Romagna (L.R. 3/2023), Umbria (L.R. 2/2023), Piemonte (L.R. 7/2024), Puglia (L.R. 11/2025) e Marche (L.R. 23/2025). Anche la Provincia autonoma di Bolzano ha approvato una legge specifica: la legge provinciale 7 dell’8 luglio 2025, denominata “Istituzione dell’Elenco provinciale degli enti che svolgono attività di interesse generale e disposizioni in materia di Terzo settore”.
Per orientarci su questo tema abbiamo intervistato Luca Gori, costituzionalista e docente alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, tra i principali studiosi italiani del diritto del Terzo settore.
Qual è il significato di una legislazione regionale del terzo settore e come questa ridisegna il ruolo del terzo settore nelle comunità locali?
Le leggi regionali sul terzo settore rappresentano una fase nuova dell’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale. Dopo il Codice del Terzo settore, che ha definito la cornice nazionale (gli elementi portanti che “unificano” il terzo settore), le Regioni stanno traducendo quel disegno nei propri ordinamenti, soprattutto rendendo operativo l’articolo 55 del d.lgs. 117/2017 in tema di amministrazione condivisa. La dimensione regionale consente di riconoscere le specificità territoriali e di valorizzare il ruolo del terzo settore come infrastruttura sociale stabile delle comunità locali, al di là dei singoli ambiti. In questo senso, non si tratta soltanto di regolare i rapporti tra enti pubblici e enti del terzo settore, ma di riconoscere al terzo settore un protagonismo nelle politiche pubbliche regionali e locali, non limitato ai soli settore sociale o socio-sanitario.
Quali sono i tratti comuni alle diverse leggi regionali e quali le principali differenze?
Un primo tratto comune è il riconoscimento formale e sostanziale dell’amministrazione condivisa come modalità ordinaria di rapporto tra pubblica amministrazione e terzo settore. Quasi tutte le leggi (Toscana, Umbria, Emilia-Romagna, Piemonte, Marche) danno attuazione ai procedimenti di co-programmazione e co-progettazione (nonché le convenzioni con ODV e APS). Un secondo tratto è l’istituzione di organismi stabili di confronto come tavoli regionali o consulte, ciascuna “calibrata” sulle realtà territoriali. Un terzo tratto è il tentativo di definire una serie di norme promozionali stabili a livello regionale, che si sommano a quelle nazionali.
Le differenze potrebbero apparire marginali, ma non lo sono. L’Umbria, ad esempio, disciplina principalmente l’amministrazione condivisa. L’Emilia-Romagna, invece, contiene una disciplina ampia del terzo settore, del volontariato e dell’attivismo civico. E, tornando al tema dell’amministrazione condivisa, sposta il baricentro dal piano della regolazione (che ha caratterizzato la prima fase delle leggi regionali) a quello della co-costruzione delle politiche pubbliche. È un passaggio importante, che racconta però del superamento di una linea di grande interesse: infatti, si passa dalla domanda sul “se” si può fare amministrazione condivisa, al “come” e con quali “effetti” farla.
Come i diversi contesti territoriali incidono sugli approcci scelti?
Le leggi regionali riflettono inevitabilmente il pluralismo sociale e istituzionale dei territori. Leggendole si può avere una idea di come la società civile si è organizzata o, per altro verso, di come il potere pubblico intende instaurare un rapporto collaborativo. L’attenzione della Toscana e dell’Umbria alla dimensione dell’amministrazione condivisa come procedimento testimonia l’esigenza della pubblica amministrazione regionale e locale di avere strumenti operativi e procedimenti per dare corpo a politiche pubbliche con modalità innovative.
La legge emiliano-romagnola, invece, oltre alla prospettiva dell’amministrazione condivisa, è molto più spostata sugli strumenti promozionali e sulle relazioni fra terzo settore e altre formazioni sociali diverse da quelle del terzo settore.
Quali sono i pregi di queste leggi?
Il loro principale merito è quello di colmare la distanza tra norma nazionale e pratica amministrativa, fornendo un contesto coerente per l’attuazione “territoriale” del Codice. Le leggi regionali “aiutano” a leggere e comprendere molte disposizioni nazionali. Oggi, infatti, come si può leggere l’art. 55 del Codice del Terzo Settore in tema di amministrazione condivisa senza considerare i molti aspetti procedimentali affrontati dalle diverse leggi regionali? Queste leggi aiutano a interpretare e applicare la disciplina nazionale. In più, le leggi, stratificandosi nel corso del tempo, arricchiscono ciascun tema: ogni nuova norma riesce ad andare più in profondità, introducendo elementi di innovazione, nel rispetto delle competenze tra Stato e Regioni. Ad esempio, l’iniziativa degli enti del terzo settore nell’ambito della coprogettazione è oggi chiarita dal D.M. n. 72/2021 ma, soprattutto, dalle leggi regionali. Oppure, la recente legge della Regione Marche introduce elementi interessanti sui rapporti fra amministrazione pubblica e terzo settore nel rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate “per” il procedimento di amministrazione condivisa. Si tratta di un elemento di grande interesse: le differenze “al margine” fanno fare progressi all’amministrazione condivisa.
E i punti critici?
Il rischio principale è la frammentazione. Al momento, per le Regioni a statuto ordinario, si deve registrare una apprezzabile comunanza di approcci e terminologie. Anziché generare confusione interpretativa e disomogeneità applicative, si è piuttosto realizzata una interessante convergenza. Tuttavia, bisogna segnalare il caso della Regione Trentino-Alto Adige e la legge provinciale di Bolzano, dove sono stati introdotti elementi “divergenti” rispetto al quadro normativo nazionale (utilizzando gli spazi costituzionalmente concessi dall’autonomia speciale, con alcuni problemi di coordinamento). In particolare, le norme di attuazione dello statuto speciale e la legge provinciale di Bolzano hanno istituito un altro registro che ha “incorporato” il Registro unico nazionale del Terzo settore, creando una norma forma di registrazione e una nuova qualifica locale. Cosicché avremo realtà di Bolzano iscritte al RUNTS ed al nuovo registro, e realtà invece iscritte solo al nuovo registro.
Più che un punto critico, è invece un altro rischio la sostenibilità delle soluzioni proposte e la capacità amministrativa. Riusciranno le regioni a investire in formazione e accompagnamento? Se alcune leggi restano mere dichiarazioni, senza dotarsi di strumenti tecnici e finanziari adeguati, si potrebbe generare un paradossale effetto delegittimazione: grandi leggi, pochi impatti. Ma vi è da considerare anche il ruolo del terzo settore: come reagirà alle novità regionali? Tuttavia, il quadro appare incoraggiante.
Molte leggi allargano la platea dei soggetti includendo realtà non profit “extra” terzo settore. Qual è il significato di questo approccio?
È una scelta interessante e complessa. La Corte costituzionale ha chiarito, senza dubbio, che la qualifica di ente del terzo settore non può essere estesa dalle Regioni oltre il perimetro previsto dallo Stato (sentenza n. 131 del 2020). Allo stesso tempo, però, si è riconosciuto che ciascuna Regione possa costruire, senza interferire con la legge statale, proprie “categorie” di enti che intende promuovere. Si hanno leggi regionali sull’associazionismo giovanile, sulle rievocazioni storiche, sull’associazionismo in area montana, ecc. Si tratta di categorie di enti che si intersecano fra loro. A ciò si aggiunga che le Regioni hanno talvolta previsto il riconoscimento di gruppi informali di cittadini o la valorizzazione di volontariato individuale. Questo approccio mette in discussione i confini del terzo settore stabiliti dalla legge dello Stato, sollecitando una riflessione su quali soggetti includere in futuro. È un elemento fisiologico, di vitalità della società civile, che trova nello spazio regionale e locale un laboratorio importante, anche se non privo di qualche difficoltà applicativa…
Le leggi regionali incidono sugli strumenti dell’amministrazione condivisa: si va verso semplificazione o nuove complessità?
Non leggerei le leggi regionali secondo la dialettica fra semplificazione e complessità. È uno schema a mio avviso scorretto. L’amministrazione condivisa non è più semplice o complessa rispetto ad altre modalità di rapporto fra terzo settore e pubblica amministrazione: è basata su presupposti differenti, e come tali devono essere considerati. Da un lato, le leggi favoriscono la semplificazione introducendo procedure standardizzate, modelli di avvisi e convenzioni, e assicurando il raccordo (e le distinzioni) con il Codice dei contratti pubblici. Dall’altro, dovendo gestire attività e ruolo di molti soggetti e interventi in molte aree di attività – in particolare sanità, cultura, scuola – si creano inevitabilmente delle complessità, che sono però lo specchio delle complessità della società civile e dell’amministrazione. Sicuramente è fondamentale la facilitazione, che passa più attraverso la formazione congiunta e la pratica.
Che cosa aspettarsi nei prossimi anni?
Mi aspetto un progressivo consolidamento delle prassi di amministrazione condivisa e una crescente convergenza tra le diverse esperienze regionali, che arricchiranno il quadro nazionale. Le leggi regionali, con le loro novità e proposte, richiedono già oggi una innovazione delle Linee guida ministeriali. Il dibattito nazionale, anche attraverso la Raccomandazione europea sull’economia sociale ed il Piano d’Azione nazionale dell’Economia sociale (in consultazione pubblica fino al 12 novembre 2025 n.d.r.), potrà stimolare questo risultato. A livello territoriale, queste leggi potranno rafforzare le reti collaborative locali, accrescere la capacità progettuale degli ETS e favorire una nuova cultura di fiducia tra istituzioni e cittadini organizzati. Questa è la vera scommessa: l’alleanza fra pubblica amministrazione e terzo settore passa attraverso la costruzione di legami fiduciari, dal sentirsi tutti schierati dalla parte dell’interesse generale. È un processo che richiede tempo, ma che segna un’evoluzione strutturale del modo di fare amministrazione pubblica in Italia. Personalmente, ho sempre ritenuto che l’amministrazione condivisa sia una delle riforme amministrative più interessanti degli ultimi quindici anni.
Ci sono altre regioni che stanno lavorando su questo fronte?
Sì. Dopo le Marche, mi risulta che stiano elaborando una proposta di legge la Liguria e la Valle d’Aosta. Anche la Provincia autonoma di Trento sta lavorando ad un testo, nell’ambito della propria autonomia speciale. L’idea è che, nell’arco di qualche anno, tutte le Regioni avranno una loro legge di riferimento.





