C’è chi comincia per caso, chi per riconoscenza, chi per reagire a un tempo difficile. Nel volontariato di oggi si intrecciano ricerca di senso, appartenenza, libertà e impatto. Storie diverse, un filo comune: la scoperta che si resta per ciò che si riceve.
Il primo passo
C’è sempre un primo passo, quasi impercettibile. Non arriva con un annuncio né con una decisione razionale: è un piccolo spostamento dentro di noi. A volte nasce da una mancanza, altre da un’urgenza, o semplicemente da quella domanda che s’insinua: “Sto facendo abbastanza?”
Barbara lo ricorda come un pomeriggio qualunque. La città era ancora stordita dalla pandemia, le serrande si alzavano a metà, le strade invase dal silenzio odoravano di pioggia. “Mi sentivo sospesa – racconta – come se la vita fosse rimasta in pausa“. Poi un’amica le parlò di un doposcuola di quartiere. “Vieni a dare una mano ai bambini che non hanno il computer“.
Barbara esitò. Non si era mai sentita una “volontaria”. Eppure, quel pomeriggio, varcò la soglia di una scuola elementare: banchi troppo grandi per quei bambini, un brusio che scaldava l’aria. “Uno dei bambini mi ha preso per mano e mi ha detto: ‘Tu resti anche domani?’“. Da allora, non ha più smesso.
Il bisogno di fare
C’è chi comincia così, per un incontro o un bisogno che si fa spazio. Marco, trentaquattrenne, era rimasto senza lavoro. I giorni scorrevano lenti, uguali, e in quella sospensione ha sentito nascere la necessità di “fare qualcosa di utile”. Ha iniziato a portare la spesa agli anziani del quartiere. “All’inizio era solo per riempire il tempo», racconta, «ma poi ho capito che mi faceva stare meglio. Loro mi ringraziavano, ma ero io a ringraziare loro“.
Molti volontari raccontano di aver cominciato per “riempire un vuoto”, e di aver scoperto in quel gesto un nuovo equilibrio interiore
Restituire
Anche Enrico, pensionato, parla di un debito invisibile: “Un volontario mi ha salvato la vita tanti anni fa, dopo un incidente in montagna. Non so chi fosse, ma ho sempre pensato che un giorno avrei restituito quel gesto“. Oggi accompagna anziani alle visite mediche, si ferma a parlare, ascolta. “Mi piace quando mi raccontano la loro vita. È come se ci scambiassimo tempo“.
Il suo “fare” nasce dalla gratitudine: quella che non dimentica, che trasforma la memoria in azione.
Appartenere
Aisha, invece, è arrivata al volontariato da un’altra porta. È arrivata in Italia dal Senegal più di dieci anni fa. “All’inizio ero io quella che aveva bisogno. Non conoscevo nessuno, non parlavo la lingua, non sapevo a chi chiedere aiuto“. Un giorno è stata invitata a un gruppo di donne che cucinavano insieme per le famiglie in difficoltà: “Lì ho trovato casa. Ho capito che aiutare è anche essere viste, contare“. Oggi coordina una rete di donne migranti. “Il volontariato non è dare, è scambiare. È dire che anche noi facciamo parte della comunità“.
Per molti, l’impegno volontario è il modo più diretto di sentirsi cittadini, di abitare un luogo con gli altri
Ritrovarsi
E poi c’è Matteo, informatico, trentacinque anni, che viveva da remoto da troppo tempo.
“Lavoravo, ordinavo, parlavo tutto online. Mi sentivo disconnesso, anche da me stesso“. Un’amica gli propose di fare da tutor a giovani in cerca di lavoro. “All’inizio pensavo di insegnare, invece ho imparato io. Aiutare un ragazzo a scrivere un curriculum ti obbliga a guardarti dentro: a capire cosa conta davvero“. Per lui il volontariato è diventato un modo per costruire relazioni reali, un antidoto alla solitudine digitale, ma anche una palestra di libertà: “Quando aiuti qualcuno senza un ritorno economico, scopri chi sei davvero“.
Le molte strade
Queste storie non si somigliano, eppure parlano la stessa lingua. Barbara cerca appartenenza. Marco, equilibrio. Enrico, restituzione. Aisha, dignità. Matteo, identità. Ognuno di loro ha trovato nel volontariato qualcosa che lo riportasse a sé e, allo stesso tempo, agli altri. È come se in ognuno si accendesse una scintilla diversa: per qualcuno è la gratitudine, per altri il bisogno di comunità, per altri ancora la voglia di dare un senso al proprio tempo. Ma il filo che le unisce è sempre lo stesso: sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Restare
E poi c’è la seconda parte del viaggio, quella meno visibile ma più profonda: restare. Perché non basta cominciare.
Restare significa trovare una ragione che va oltre l’urgenza del momento. È la soddisfazione di un gesto che torna, la fiducia che cresce, il riconoscimento silenzioso che arriva da chi incontri. “Quando una signora mi chiama per dirmi che non ha più bisogno di me perché sta meglio – dice Enrico – è come se il cerchio si chiudesse. E io ricomincio da un altro“.
Come scrive un volontario nel Rapporto NOI+ del Forum del Terzo Settore: “All’inizio volevo aiutare. Poi ho capito che a tenermi qui è ciò che ricevo: un modo di stare al mondo che non trovo altrove“.
Forse è tutto qui, nelle parole di quell’anonimo volontario. Si comincia per reagire, per restituire, per non sentirsi soli. Ma si resta per crescere, per imparare a vedere gli altri e se stessi con occhi diversi. Il volontariato non è una via retta, ma un intreccio di sentieri: nasce dal bisogno e arriva al dono, parte dal sé e si allarga al noi.
Restare è anche sapere che ogni esperienza di volontariato è un dialogo: tra chi aiuta e chi viene aiutato, tra le generazioni, tra il desiderio di fare e la fatica di riuscirci. E sì, ci sono i momenti di stanchezza, i piccoli conflitti, le delusioni. Ma per molti, ciò che li tiene dentro è qualcosa che somiglia a un senso di casa.





