di Redazione Vdossier – 9 ottobre 2025

La sfida del contrasto alla povertà nel rapporto Caritas: primo bilancio dell'assegno di inclusione

 La povertà ha molte dimensioni: economica, lavorativa, abitativa, familiare, sanitaria e psicologica e non ha cause né soluzioni semplici. I dati del rapporto lo confermano e Caritas è sempre più “paracadute” sociale.

Caritas Italiana ha offerto in occasione della presentazione del Rapporto dedicato alle politiche di contrasto alla povertà un primo bilancio sull’Assegno di Inclusione (ADI) introdotto a gennaio 2024. La riforma, che ha sostituito il Reddito di Cittadinanza, ha segnato un cambio di paradigma: dal principio universalistico dell’aiuto a tutti i poveri a un approccio categoriale, riservato solo ad alcune tipologie familiari.

I dati raccolti da Caritas evidenziano una contrazione della platea dei beneficiari del 40-47%, senza che questo abbia migliorato l’efficacia nel raggiungere i più fragili. Sono infatti escluse molte famiglie in età da lavoro senza figli, lavoratori poveri, stranieri e nuclei residenti nel Centro-Nord. In particolare, le famiglie straniere – pur con un allentamento del requisito di residenza – risultano ulteriormente penalizzate dalla nuova scala di equivalenza.

Il Rapporto sottolinea come, in questo scenario, Caritas sia tornata a svolgere un ruolo di “paracadute” sociale, registrando un aumento delle richieste di aiuto per beni primari come cibo, affitto e utenze. Un’inversione di tendenza preoccupante che rischia di ridurre lo spazio per l’accompagnamento personalizzato verso l’autonomia.

Anche il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) mostra alcuni limiti: bassa partecipazione, percorsi poco incisivi e scarse opportunità occupazionali stabili. Più che un trampolino verso l’inclusione, rischia di essere percepito come un sostegno temporaneo e inefficace.

Caritas Italiana richiama l’attenzione sulla necessità di politiche inclusive, coordinate e basate sui reali bisogni delle persone, per garantire a tutti, e non solo ad alcuni, il diritto a un’esistenza dignitosa.

Non ci sono risposte facili nella lotta alla povertà

La povertà ha molte dimensioni – economica, lavorativa, abitativa, familiare, sanitaria e psicologica – e non ha cause né soluzioni semplici. I dati Caritas lo confermano, ma ciò non significa arrendersi né frammentare le risposte pubbliche. Occorre invece partire da alcuni punti fermi emersi dal monitoraggio Caritas: l’obiettivo è mettere le persone in grado di plasmare il proprio destino (libertà positiva)
combinando sostegno economico immediato e servizi di accompagnamento in un unico percorso di
inclusione.

Assegno di Inclusione: criteri familiari di accesso e nuovi esclusi

Una delle strade percorribili per ridurre gli stanziamenti sulla povertà avrebbe potuto essere quella di
indirizzare maggiormente il sostegno pubblico verso i più deboli, incrementando la percentuale di poveri
tra i beneficiari della misura pubblica e correggendo così i limiti del Reddito di Cittadinanza nella capacità
di raggiungere gli ultimi. In altre parole, si sarebbe potuto modificare la misura con un intervento
verticale, cioè concentrando le risorse verso i più poveri; al contrario, si è scelto un approccio orizzontale,
che ha ristretto la platea con criteri categoriali (presenza di figli minori, di persone con disabilità e non
autosufficienza, over 67 anni), indipendentemente dal livello di povertà e lasciando così nuclei fragili
scoperti.

Come effetto si è avuta la drastica riduzione della platea di beneficiari del 40-47%, che non si è tradotta
in un miglior indirizzamento delle risorse economiche verso i più fragili fra i fragili. A essere maggiormente
penalizzati dalla riforma sono le famiglie in età da lavoro senza figli minori, i lavoratori poveri, gli stranieri
e chi vive nel Centro-Nord. Si tratta spesso di segmenti già molto deboli del tessuto sociale e, in questi
casi, l’esclusione dal beneficio può tradursi in un aumento delle famiglie effettivamente in povertà che
restano senza sostegno. Al tempo stesso, i criteri categoriali adottati non sembrano ridurre in modo
significativo l’accesso da parte di famiglie non povere. In altre parole, alcune famiglie vulnerabili restano
escluse, mentre altre, non necessariamente povere, riescono comunque a ricevere il sussidio.
L’intenzione di riservare alle famiglie con responsabilità di cura una protezione particolare, in ragione
delle loro specificità, è condivisibile ma non può ledere il diritto di ognuno a ricevere un aiuto da parte
dello Stato, indipendentemente da caratteristiche anagrafiche, familiari o di altro tipo.

Inoltre, si conferma, come già accadeva con il RDC, una forte discrepanza tra la distribuzione geografica
dei poveri e quella dei beneficiari: nel Nord si trova oggi il 41% delle famiglie povere assolute, ma solo il
15% delle famiglie che ricevono l’ADI.

Nel 2024, con l’attivazione dell’ADI, l’Italia è diventata l’unico Paese europeo senza una misura di reddito
minimo rivolta a tutti i poveri in quanto tali e non solo ad alcune categorie, come le famiglie con figli o
senza componenti occupabili. Si è passati, in sintesi, dal principio dell’universalismo (aiutare tutti i
poveri) a quello della categorialità familiare (aiutare solo alcuni poveri, individuati in base alle
caratteristiche della loro famiglia).

Il mancato miglioramento per gli stranieri che si traduce in un peggioramento di fatto

Nel passaggio dal RDC all’ADI si è ammorbidito il requisito di residenza sul territorio nazionale necessario
per fare domanda, da 10 anni previsti dal RDC ai 5 anni stabiliti dall’ADI. Tuttavia, la nuova scala di
equivalenza dell’ADI penalizza fortemente le famiglie numerose, spesso straniere, e questo effetto ha più
che compensato l’allentamento del vincolo sulla residenza. Tra luglio 2023 (RDC) e giugno 2025 (ADI)
infatti la riduzione percentuale nel numero di nuclei beneficiari è stata maggiore per gli stranieri (-40%)
rispetto agli italiani (-35%), indicando una maggiore penalizzazione del primo gruppo rispetto al secondo
con le nuove misure. Considerando quindi l’evoluzione delle misure nazionali, si è passati da una
esclusione sistematica degli stranieri, determinata da un criterio molto severo sugli anni di residenza (10
anni) col RDC, a una esclusione che può risultare ancora più marcata coll’ADI, generata
dall’inasprimento degli altri criteri di accesso (composizione familiare).

Caritas sempre più “paracadute” sociale

La riduzione dell’intervento pubblico ha generato un aumento consistente, e inatteso, delle richieste di
aiuto presso le Caritas diocesane.

Il problema, però, non riguarda solo la quantità dell’impegno richiesto alle Caritas, ma anche la sua
natura. Se con il RDC molte famiglie riuscivano a coprire almeno le spese essenziali (affitto, bollette,
alimentari) e si rivolgevano alla Caritas soprattutto per supporti integrativi o per la gestione di specifiche
emergenze, ora si sta assistendo a un ritorno alle esigenze primarie. Le richieste ai centri Caritas sono
tornate a concentrarsi su beni di prima necessità: pacchi alimentari, pagamento di utenze, contributi per
l’affitto, materiale scolastico per i figli. Un simile spostamento rischia di schiacciare l’azione della Caritas
verso un’assistenza prevalentemente materiale e burocratica.

Esiste il pericolo – in vari territori è già realtà – che venga messo in secondo piano un obiettivo
fondamentale dell’approccio Caritas, cioè l’accompagnamento personalizzato della persona verso
l’autonomia. Caritas sembra sollecitata ad assumere soprattutto un ruolo di paracadute per evitare che
chi sta cadendo in povertà precipiti al suolo rispetto a un ruolo di trampolino verso una vita migliore,
attraverso opportuni percorsi di accompagnamento.

Supporto Formazione Lavoro: una misura da ripensare

Il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL), nato per favorire l’attivazione e l’inserimento lavorativo,
ha incontrato diverse difficoltà nella sua attuazione. La platea dei beneficiari resta ancora limitata e,
secondo molte Caritas, i risultati occupazionali appaiono modesti: poche adesioni e inserimenti stabili
rari. In molti casi, i percorsi di formazione e i tirocini si sono rivelati esperienze brevi e poco incisive, seguite
più per non perdere il sostegno che per reali opportunità di crescita. In diversi territori, il SFL è percepito
come un aiuto temporaneo più che come un vero percorso di emancipazione, con il rischio di alimentare
scoraggiamento anziché attivazione.

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