In Italia si dice spesso che “siamo un popolo di volontari”. Ma osservando i numeri — quelli ufficiali, quelli dei rapporti annuali, quelli delle statistiche europee — viene il dubbio che più che fotografare la realtà, le cifre contribuiscano a costruirne una narrazione. Ogni indagine restituisce un volto diverso del volontariato. Nessuna, però, riesce a raccontarne appieno la complessità, né tantomeno le sue trasformazioni più recenti.
Un dato dopo tempo
Uno dei problemi più evidenti è la discontinuità temporale delle rilevazioni. L’ISTAT — unico ente in grado di offrire una misurazione nazionale del volontariato informale — rileva questo fenomeno una volta ogni dieci anni e da ora in poi lo farà ogni cinque. Il 29 luglio sono stati diffusi i nuovi dati sul volontariato in Italia (i precedenti risalivano al 2013): secondo l’indagine 2023, oltre 4 italiani su 10 (il 40,7%) hanno svolto attività gratuite a beneficio di altri o della comunità. Un numero sorprendente – e rassicurante – rispetto ai segnali di disimpegno percepiti negli ultimi anni. Ma è solo una parte della storia.
Oggi, i numeri non bastano più. Soprattutto se letti isolatamente, o senza considerare il contesto in cui vengono prodotti. Perché mentre le statistiche raccontano una realtà “ferma”, il mondo del dono corre, cambia pelle, sfugge alle definizioni.
Nel frattempo, l’ISTAT ha continuato a monitorare — ogni tre anni — le organizzazioni non profit attraverso il censimento permanente. Ma anche qui si misura la struttura, non la sostanza. Non si distingue tra chi è attivo quotidianamente e chi è solo iscritto. Contare le associazioni è un conto. Capire quante persone partecipano, con quale intensità e in che forme, è tutt’altra questione.
Indagini diverse, racconti diversi
Mentre i dati istituzionali arrivano con lentezza, realtà del Terzo Settore, enti di ricerca e università cercano di colmare il vuoto con indagini autonome. Ma i risultati divergono e le metodologie sono spesso incompatibili. La comparabilità, di fatto, viene meno.
“NOI+” – Forum Terzo Settore & Caritas Italiana (dicembre 2024)
Questa ricerca, dal taglio positivo e motivazionale, ha coinvolto oltre 3.000 volontari. Il 54 % percepisce il proprio impegno come motore di cambiamento culturale, relazionale e organizzativo. Tra i giovani, emergono motivazioni legate alla crescita personale: il 18 % per auto-esplorazione, il 17 % per sviluppo professionale. Un quadro significativo, ma circoscritto: lo studio fotografa chi è già inserito nel mondo organizzato, mentre resta esclusa l’ampia fascia dei volontari occasionali, informali, fluidi — quelli che operano fuori dai circuiti tradizionali.
Rapporto Giovani – Istituto Toniolo / Fondazione Cariplo (2023)
Il quadro qui è meno entusiasta. Solo il 6,6 % dei giovani svolge volontariato in modo continuativo; un ulteriore 7 % lo fa saltuariamente. Il 64,8 % non è iscritto ad alcuna organizzazione. Ma il dato più interessante arriva da un caso studio: a Genova, dopo l’alluvione, moltissimi giovani si sono attivati spontaneamente per pulire e aiutare. Nessuna di queste azioni, però, entra nelle statistiche ufficiali. È la conferma che il volontariato estemporaneo, seppur vitale, resta invisibile ai radar istituzionali.
Sapienza – CoRiS (2021): volontariato ai tempi del Covid
Durante la pandemia, il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza ha messo in luce nuove forme di impegno emergenziale: turni organizzati via chat, reti di mutuo soccorso, aiuti auto-organizzati. Forme fluide, informali, spesso temporanee. Il paradosso? Hanno sostenuto interi territori nel momento più critico, ma non sono mai state registrate nei database ufficiali.
Uno sguardo oltre i confini
Eurostat, nel 2022, ha rilevato la partecipazione civica nei 27 Paesi dell’Unione Europea distinguendo tre ambiti: volontariato formale, volontariato informale e cittadinanza attiva.
Le medie europee parlano di:

- 13,8% di cittadini impegnati in volontariato formale
- 14,3% in forme informali
- 7,8% in attività di cittadinanza attiva.
L’Italia si colloca sotto la media in tutti e tre gli ambiti. Nel volontariato formale siamo al 5,1%, uno dei tassi più bassi in Europa. A dominare la classifica c’è la Norvegia con un impressionante 46,9%, seguita da Paesi Bassi (33,9%), Lussemburgo (28,2%), Svizzera (26,6%) e Svezia (20,2%). Il divario si allarga nel volontariato informale: in Norvegia l’81,9% dei cittadini dichiara di offrire aiuto al di fuori delle organizzazioni strutturate; nei Paesi Bassi il 74,7%. In Italia? Appena il 4,2%.
Lo stesso vale per la cittadinanza attiva: il nostro Paese è in coda con il 2,4%, contro il 40,5% della Norvegia e il 20-25% di molti altri Stati del Nord. Una distanza che interroga non solo le istituzioni, ma anche il Terzo Settore e il sistema educativo, chiamati a promuovere una cultura della partecipazione diffusa e accessibile.
Oltre il numero. Il racconto che i dati non dicono
Nel data journalism — sempre più centrale nel racconto del sociale — la visualizzazione è parte del messaggio. Ma anche parte del problema. Un grafico non è mai neutro: ogni colore, ogni scala, ogni asse scelto può orientare la percezione del lettore. Può amplificare una tendenza, minimizzare un’anomalia, suggerire un’interpretazione.
Nel raccontare il volontariato, questo rischio è ancora più forte. Spesso i dati sono pochi, discontinui, costruiti con criteri diversi. E la tentazione di farli parlare oltre le loro possibilità è forte. Si mettono a confronto fenomeni non omogenei — formale vs informale — come fossero intercambiabili. Si aggregano percentuali che non si sommano. Si evocano tendenze senza indicare cosa si stia davvero misurando.
I dati servono, certo. Ma servono anche spirito critico e competenza interpretativa. Perché ogni cifra — anche la più apparentemente oggettiva — è frutto di scelte: su cosa misurare, come farlo, cosa includere o escludere. E ogni scelta è un atto narrativo, oltre che statistico.
Quando contare non basta
Ciò che emerge da questo mosaico è una mancanza di coerenza e continuità. I dati sono spesso parziali, non comparabili, raccolti con metodi differenti. I campioni sono ridotti, le definizioni variabili, le interpretazioni talvolta ottimistiche.
Allora la domanda è: servono più dati, o serve una maggiore consapevolezza nel leggerli? Abbiamo bisogno di una statistica più onesta, tempestiva, trasparente. Ma anche di uno sguardo capace di andare oltre il numero. Che si chieda non solo quanti sono i volontari, ma chi sono, perché si impegnano, come stanno trasformando le pratiche della solidarietà.
Perché, in fondo, contare è importante. Ma capire è decisamente meglio.




